La partita nel Lazio si apre ufficialmente oggi, giornata in cui sono previste le dimissioni, dopo dieci anni di governo, del presidente Nicola Zingaretti da presidente della Regione. Il nodo? Quello dell’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico che, insieme, amministrano la Regione dal 2021.
Oggi Nicola Zingaretti si dimette da presidente della Regione Lazio. Favorì l’asse giallorosso ma lascia in eredità un partito allo sbando
La discussione si protrae da tempo: da una parte ci sono diversi esponenti della sinistra, Zingaretti in testa, che spingono per la continuità anche per scongiurare un possibile bis del centrodestra; dall’altra c’è Giuseppe Conte che non ha nessuna voglia di farsi inglobare dal Partito democratico o di abbassare la testa di fronte alle richieste dei dem, né di sedersi al tavolo con i vertici attuali “non perché sono antipatici”, spiega il leader Cinque Stelle, “ma perché ci sono ragioni politiche serie”. Insomma, questo matrimonio s’ha da fare sì o no?
Sebbene dal Partito democratico arrivino grida di accusa nei confronti dei Cinque Stelle con qualcuno che parla di ossessione di Conte nei confronti del partito di Enrico Letta, il leader del Movimento 5 Stelle non ha chiuso all’alleanza con i dem, ha semplicemente dettato le sue condizioni coerentemente con l’azione politica di cui si fa interprete per “offrire alla comunità del Lazio una proposta politica seria che possa entusiasmare i cittadini con un’alternativa alle ricette inadeguate delle forze di destra”.
Dopotutto, è stato lui stesso a dire, intervistato da Bianca Berlinguer e incalzato da Paolo Mieli sui rapporti con i dem, che non ha alcuna intenzione di “fare male al Partito democratico” e che, anzi, “se il Pd è accanto noi mi fa piacere”. Tant’è che ha ammesso di “non portare rancore”, nonostante il comportamento dei dem durante la campagna elettorale per le politiche di settembre che, pur di spingere giù il Movimento 5 Stelle, hanno imbarcato nelle loro liste tutti i fuoriusciti, compreso Luigi Di Maio.
“Il Partito democratico ci chiede un atto di generosità”, dice Conte, “ma non esiste se significa scarsa chiarezza sui programmi e annacquamento dei nostri punti di forza. Partiamo da qui”, continua, “dalle nostre condizioni minime. Chi c’è è benvenuto, purché si comporti con lealtà e correttezza. Si vince se si ha un progetto serio e si è coerenti. Sennò non si va da nessuna parte, si può essere cento, un’ammucchiata clamorosa, ma non si va da nessuna parte”.
Ma quali sono queste “condizioni minime”? Sanità, lavoro e ambiente, sulle quali il leader pentastellato è irremovibile e determinato a far valere le posizioni dei pentastellati, in primis quella sull’inceneritore che si intende realizzare nella Capitale e al quale, dal primo momento, si è opposto.
L’obiettivo, quindi, è sedersi al tavolo “insieme alle forze politiche e sociali che vorranno partecipare” e presentare un candidato che possa farsi interprete di un progetto autenticamente progressista, cosa che esclude seduta stante una possibile alleanza con il “Terzo Polo” di Matteo Renzi e Carlo Calenda i quali, secondo Conte, progressisti non sono affatto e che insistono affinché il Partito democratico molli i Cinque Stelle per andare a braccetto con loro, almeno nel Lazio.
Intanto la proposta di Conte non dispiace a Fassina & co. di Coordinamento 50 che la reputano “seria” e che individuano nei punti programmatici “una base utile per aprire da subito il confronto”. Questo, però, non basta a ricucire ferite profonde tra le due forze politiche ex alleate.
E mentre Zingaretti dice che “nell’atteggiamento di Conte ci sono dei riflessi partitici di livello nazionale”, il leader del Movimento 5 Stelle ribadisce: “Non abbiamo chiuso le porte ma elencato dei punti irrinunciabili”. Di spiragli per un “campo largo”, insomma, ce ne sono ancora, ma la luce che entra è sempre di meno.
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