Zelensky “dittatore”? Nel 2019 per Trump era un leader fantastico

Trump prima lodava Zelensky, ora lo accusa: la telefonata del 2019 lo smentisce, ma la memoria corta della politica riscrive la storia

Zelensky “dittatore”? Nel 2019 per Trump era un leader fantastico

Donald Trump ha un talento singolare per riscrivere la storia, soprattutto quando si tratta di Zelensky e dell’Ucraina. Oggi lo definisce un “dittatore non eletto” e un “comico mediocre”. Peccato che la trascrizione della telefonata del 25 luglio 2019 con il presidente ucraino racconti una storia diversa. Allora, Trump si congratulava con Zelensky per la vittoria elettorale con parole calorose: “Avete fatto un lavoro fantastico. Avete un seguito incredibile”.

La telefonata che smentisce Trump

Nella stessa telefonata, Trump lodava gli sforzi di Zelensky: “Farete molte cose per l’Ucraina. Sarete una grande presidente”. Poi, con una transizione quasi naturale, introduceva la questione Biden: “Mi piacerebbe che ci faceste un favore perché il nostro Paese ha attraversato molto e l’Ucraina sa molto al riguardo”. Seguiva la richiesta esplicita: “C’è molto da dire su Biden e suo figlio, e molti vogliono sapere cosa è successo. Qualsiasi cosa possiate fare con il procuratore generale sarebbe grandioso”.

Ma Trump si smentisce da solo. E gli altri dimenticano, con una rapidità quasi sospetta, che fu proprio l’Ucraina a trascinarlo in uno dei più gravi scandali della sua presidenza. Quella telefonata, oggi pubblicamente disponibile, non era solo un atto di cortesia diplomatica. Era l’inizio di un’operazione di pressione politica che avrebbe portato all’impeachment dell’allora presidente Usa. Trump, nella chiamata, non si limitò a lodare Zelensky. Chiese, con un tono più da affarista che da capo di Stato, di aprire un’indagine su Hunter Biden, il figlio di Joe Biden, per screditare il suo futuro rivale alle presidenziali del 2020.

Dallo scandalo al capro espiatorio

La cronaca dello scandalo Trump-Ucraina, ben documentata, racconta di pressioni politiche mascherate da strategia diplomatica. Trump bloccò 391 milioni di dollari di aiuti militari destinati all’Ucraina. Il sospetto viene da sé: gli aiuti sarebbero arrivati se Kiev avesse avviato un’indagine utile alla sua campagna elettorale. Il tutto confermato da testimoni chiave come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, che nel suo libro parlò esplicitamente di uno scambio di favori. Il Congresso aprì un’indagine e nel dicembre 2019 la Camera dei rappresentanti votò per l’impeachment di Trump, accusandolo di abuso di potere e ostruzione al Congresso. Il Senato, dominato dai repubblicani, lo assolse nel febbraio 2020.

Eppure, oggi Trump ribalta il copione. Da alleato in cerca di favori, Zelensky diventa un bersaglio. Un “dittatore non eletto”, dice, senza neppure notare l’ironia della sua affermazione. Zelensky fu eletto nel 2019 con il 73% dei voti, mentre Trump, nel 2020, uscì sconfitto con sette milioni di voti di scarto e un assalto al Congresso che ha scritto una delle pagine più buie della democrazia americana.

Il revisionismo trumpiano si nutre della memoria corta di molti. Perché se Zelensky oggi è diventato un bersaglio della destra americana, lo è non per il suo passato di attore, ma per il presente di presidente di un Paese che resiste a Mosca. Trump e il suo entourage, sempre più inclini a un avvicinamento alla Russia, usano il leader ucraino come simbolo da screditare, nel tentativo di giustificare il loro isolazionismo e le loro simpatie putiniane.

Ma i fatti restano. Nel 2019 Trump cercava di usare Zelensky per restare alla Casa Bianca. Nel 2025, con un’altra corsa elettorale alle porte, Zelensky torna utile, ma in un altro ruolo: quello del capro espiatorio. Cambiano le parole, ma la strategia resta la stessa. E la realtà, ancora una volta, è il primo danno collaterale.