Tira una brutta aria per il disegno di legge Richetti che Matteo Renzi, malgrado la scoppola siciliana, ha messo al primo punto della direzione del Pd di lunedì prossimo. Il segretario dem è convinto che il provvedimento, che prevede – lo ricordiamo – il ricalcolo col sistema contributivo degli assegni maturati da ex parlamentari e consiglieri regionali col retributivo, possa essere approvato dal Senato così com’è. E anche tra i suoi fedelissimi il sentiment è lo stesso. “Che il ddl sia a rischio non ci credo neanche se lo vedo”, taglia corto uno di loro con fare sicuro. Più esplicito Matteo Orfini. “Non è una questione definibile come di coscienza – ha detto ieri al videoforum di Repubblica –. È un punto politico”. Si fa così e basta, è il senso. Ma alla fine, a decidere, saranno i numeri. E qui la domanda sorge spontanea: a Palazzo Madama, basteranno per approvare il disegno di legge? Mica tanto.
Pallottoliere alla mano, infatti, ne mancano parecchi per far “stare sereno” l’ex premier. Vuoi perché al Senato la situazione, tra voltagabbana e un Misto nel quale albergano più di 10 componenti, è peggio d’un Vietnam. Vuoi, soprattutto, perché è dentro lo stesso Pd che c’è una fronda, capeggiata da Ugo Sposetti, pronta ad affossare la norma. Sommando i gruppi che l’hanno votata alla Camera, i potenziali sì sono 145: 11 della Lega, 1 di FdI, 35 del M5S e 98 del Pd. Che però, come detto, non voterà compatto. Quindi si scende fattivamente sotto quota 140, con la maggioranza assoluta pari a 161. Stavolta, oltretutto, potrebbe non bastare nemmeno il soccorso dei verdiniani (14 senatori).
Colpo d’Ala – “Il ddl Richetti? Così com’è non ci pensiamo proprio a votarlo”, dice senza mezzi termini il capogruppo di Ala al Senato, Lucio Barani. “Non siamo pecore al pascolo di un pastore, abbiamo presentato degli emendamenti e se saranno accolti lo voteremo – aggiunge –. Vogliamo che la legge sia costituzionale e adesso non lo è, e poi il populismo non ha mai sfamato nessun popolo e non ha mai vinto una guerra”. Anche Forza Italia (43) viaggia sulla stessa lunghezza d’onda. “È una sparata pre-elettorale”, sentenzia il senatore Lucio Malan. “Il disegno di legge ha molteplici profili di incostituzionalità e metterebbe in pericolo le pensioni maturate dagli italiani col retributivo. Per noi è no”. E pure Federazione della Libertà, il gruppo che fa capo a Gaetano Quagliariello (10), dimostra freddezza. “Dopo 33 anni di contributi versati – spiega Carlo Giovanardi – a me andare in pensione col nuovo sistema converrebbe pure. Ma ho colleghi che si ritroverebbero a 70/75 anni con la pensione decurtata. Ecco perché è una norma che serve solo per arringare l’opinione pubblica e basta”. E Francesco Colucci (Ap): “Fare politica è una cosa seria, qui sono in ballo principi costituzionali. Renzi la smetta di fare il padrone”. Insomma, il quadro è questo. Al quale va aggiunto il niet di Sposetti & C.
Effetto boomerang – Sul tavolo, “Ugo” ha messo due emendamenti mica da ridere: uno per cancellare l’art. 1 del ddl, cioè il cuore pulsante; un altro per abbassare l’età pensionale dei parlamentari a 63 anni. E da lì non vuole retrocedere. Certo, ieri tra i corridoi di Palazzo c’era chi faceva notare come Renzi potrebbe pure veder “morire” il provvedimento per poi giocarsi la carta in campagna elettorale su un terreno caro ai Cinque Stelle. Ma sarebbe comunque una sconfitta. L’ennesima. “Matteo” è avvisato.
Twitter: @GiorgioVelardi