Il dato è tratto. Salvo colpi di scena dell’ultima ora, oggi il Parlamento sarà protagonista di un rimpastino per quanto riguarda le presidenze delle commissioni: 28 poltrone che – e chi conosce Camera e Senato lo sa bene – contano più di quanto si creda. Dopo quasi un anno dal cambio di maggioranza, d’altronde, è arrivato il momento di sostituire le presidenze leghiste e riequilibrare i rapporti di forza tra Movimento cinque stelle, Pd, Italia Viva e Leu. Questo, però, non vuol dire che stia andando tutto per il meglio.
Fino a ieri sera tardi, infatti, da più fonti parlamentari all’interno della maggioranza il refrain era sempre lo stesso: “Un accordo ancora non c’è”. Tanto che resta un sostenuto numero di parlamentari – specie pentastellati – convinto che alla fine oggi tutto salterà e nessuna nomina verrà effettuata. “Non ha senso nominare ora i nuovi presidenti”, sbotta non a caso un senatore 5S. La ragione sta nel fatto che di qui alla fine dell’estate non si sa se la maggioranza resterà in uguale schieramento, se ex forzisti andranno ad ampliare il peso specifico di Italia Viva e, soprattutto, quali potranno essere le richieste dei partiti di maggioranza dopo il voto delle regionali. “Il manuale Cencelli è sempre dietro l’angolo…”, osserva ancora il senatore pentastellato.
SCACCHIERE COMPLICATO. C’è, però, anche chi dice che la partita delle nomine cade a fagiolo: in un momento così delicato per la legislatura, con i tavoli Mes e Benetton ancora da definire, cedere alcune presidenze chiave potrebbe essere uno strumento per far digerire più di qualche boccone amaro. Ed è un quadro, questo, noto tanto ai pentastellati (che possono spingere parecchio sulla questione Aspi, checché ne dica Renzi), quanto a dem et alii (che possono alzare le loro richieste sapendo che i grillini dovranno cedere). A capire alla lettera questo giochino è stata Italia Viva che ha fatto quadrato intorno al nome di Maria Elena Boschi. L’ex ministra entrerà sicuramente – salvo smentite dell’ultima ora – tra i neo-presidenti. Secondo quanto risulta a La Notizia, l’indecisione è tra due commissioni chiave: Affari costituzionali o Giustizia. In ogni caso a fare un passo indietro sarà un grillino: Giuseppe Brescia o Francesca Businarolo.
Molto probabile che alla fine si decida per la Giustizia, anche perché se dovesse lasciare Brescia, significherebbe per l’ala fichiana del Movimento perdere una pedina importante dopo che – sempre secondo quanto è riuscito ad appurare il nostro giornale – anche un altro fichiano lascerà una presidenza: parliamo di Luigi Gallo alla Cultura. Al suo posto in vantaggio l’ex sottosegretario Gianluca Vacca, in alternativa Vittoria Casa. Ma non è finita qui. Italia Viva potrebbe ottenere anche un’altra pedina fondamentale: la potente commissione Bilancio, che andrebbe a Luigi Marattin al posto di Claudio Borghi della Lega. Pare invece sfumata l’idea Raffaella Paita ai Trasporti (come invece avrebbero voluto gli stessi grillini per tenersi Giustizia e Affari costituzionali). Ambita, però, è anche la commissione Ambiente con la dem Chiara Braga che se la giocherà con Leu e con l’ex numero uno di Legambiente, Rossella Muroni.
Mentre Debora Serracchiani è in corsa per la commissione Lavoro. Un’altra commissione chiave è la Esteri, ora guidata da Marta Grande. Premesso che i 5 Stelle, essendo Di Maio ministro, si sono rassegnati a perderla, c’è il Pd che litiga al suo interno. I nomi in ballo sono tre: Lia Quartepelle, Marco Minniti e Piero Fassino. C’è un altro braccio di ferro sempre tra i dem e riguarda la commissione Sviluppo economico. A contendersela ci sono Luca Lotti e Gianluca Benamati, con quest’ultimo, vicino a Dario Franceschini, che potrebbe spuntarla. “Anche perché – spiegano fonti pentastellati – per noi il nome di Lotti è irricevibile”.
COMMISSIONI-CHIAVE. Discorso altrettanto complicato al Senato. La strategia dei Cinque stelle, specie a Palazzo Madama, era quella di cedere le commissioni “fotocopia”, quelle cioè dove si ha presidenza sia alla Camera che al Senato: la Esteri e la Politiche Ue. È probabile che alla fine la prima finisca nelle mani di Roberta Pinotti, mentre è difficile che i Cinque stelle rinuncino a Ettore Licheri. In ogni caso dem & C. non vogliono accontentarsi. E così, oltre alle sostituzioni con i leghisti (Pietro Grasso vorrebbe ottenere la Giustizia, mentre il dem Luciano D’Alfonso potrebbe spuntarla per la Finanze al posto del leghista Alberto Bagnai), le due commissioni “puntate” sono Lavoro e Industria. Quest’ultima sembrava destinata a finire a Enrico Stefano ma sono stati gli stessi membri M5S di commissione a fare quadrato intorno a Gianni Girotto: “Gianni – spiega un senatore – è persona competente su queste materie e in commissione Industria si discutono le norme più delicate in fatto di industria ed energia. Rischiamo troppe ‘manine’ pericolose”.
In altre parole: non si vuole rinunciare a Girotto poiché presidio di competenza e legalità. Ecco perché, allora, si potrebbe cedere il Lavoro oggi presieduta da Susy Matrisciano: in questo caso sarebbe pronto Tommaso Nannicini a prendere il posto che fu di Nunzia Catalfo. Proprio lui che ha presentato un ddl alternativo sul salario minimo a quello dell’attuale ministra: un salario minimo che, paradossalmente, non ha alcun minimo, alcuna soglia ma che rinvia alle calende greche ogni decisione. Quel che pare è che il Movimento farà di tutto per conservare entrambe le posizioni, centrali per le politiche pentastellate. “È evidente però – spiega una fonte qualificata – che al Senato almeno una presidenza tra Industria, Lavoro e Lavori Pubblici dovrà finire agli altri partiti”. Ed ecco perché la chiave di volta potrebbe essere uno scambio che assicuri ai Cinque stelle un presidio su questi ambiti: la cessione della presidenza al Senato in cambio della rispettiva presidenza alla Camera. “Di modo che possa esserci sempre un occhio vigile”, spiegano ancora fonti parlamentari del Movimento.
PARTITE INCROCIATE. Senza, tuttavia, dimenticare che si andrà al voto sulle commissioni (sempre che alla fine non slitti tutto a settembre) con altre nomine alle porte: quelle delle Authority Privacy e Agcom che ci saranno domani, dopo un ritardo di oltre un anno. E sulle quali i partiti – compresi quelli di opposizioni – già hanno dichiarato battaglia.