di Carmine Gazzanni Pecunia non olet. Il denaro non puzza, dicevano i latini. Anche se con quella “pecunia” dovessero vendersi armi a Stati in guerra, Stati “border-line” o, peggio ancora, Stati nei quali è accertata la presenza dell’Isis, come Siria, Libia o Kuwait. Tutto è lecito se nel giro di 25 anni il guadagno è stato di oltre 54 miliardi di euro per le lobby della guerra made in Italy. I dati, impressionanti, sono stati snocciolati nel rapporto realizzato dall’Archivio Disarmo con Giorgio Beretta di Opal (Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere) e il coordinatore Francesco Vignarca. Un quadro, che oggi più che mai torna utile, a 25 anni precisi dall’introduzione della legge, approvata il 9 luglio del 1990, sul “controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Una legge che, possiamo dirlo, è venuta meno al suo compito numero uno. Il controllo, appunto. MERCATO FLORIDO – Più di qualcosa, nel corso del tempo, non è andata come avrebbe dovuto se, come emerge dal report, più della metà (il 50,3%) delle esportazioni ha riguardato paesi al di fuori delle principali alleanze politico-militari dell’Italia e cioè i paesi non appartenenti all’UE o alla Nato: un dato preoccupante se si considera che – secondo l’articolo 1 della legge in questione – le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Finita qui? Certo che no. Ancora più preoccupanti sono infatti le zone geopolitiche di destinazione: se primeggiano i paesi dell’Unione Europea (più di 19,4 miliardi di euro pari al 35,9%), sono però “di assoluto rilievo” anche le autorizzazioni per esportazioni di sistemi militari verso le aree di maggior conflittualità del mondo come i paesi del Medio Oriente e Nord Africa che nell’insieme superano i 12,5 miliardi di euro (23,2%) e dell’Asia (8,3 miliardi pari al 15,4%). Ai paesi del Nord America sono stati esportati armamenti per 5 miliardi (9,3%) mentre ai Paesi europei non-Ue (tra cui la Turchia) per oltre 3,8 miliardi (7,1%). Minori, ma non irrilevanti, anche le autorizzazioni che riguardano i paesi dell’America Latina (2,4 miliardi pari al 4,5%), dell’Africa subsahariana (oltre 1,3 miliardi pari al 2,4%), tra cui soprattutto Sudafrica e Nigeria, e dell’Oceania (1,1 miliardi pari al 2,1%). SOLDI PURE AGLI AMICI DELLA JIHAD – Passiamo a questo punto ai singoli Paesi con cui le lobby nostrane commerciano. Ai primi posti figurano due tra i principali alleati del nostro paese come gli Stati Uniti (4,5 miliardi di euro) e il Regno Unito (4 miliardi), ma non si possono sottovalutare le consistenti esportazioni ad altri regimi che, in passato (e secondo alcuni anche nel presente) hanno, in un modo o nell’altro spalleggato per Al Qaeda prima, l’Isis poi. Dall’Arabia Saudita (3,9 miliardi) agli Emirati Arabi Uniti (3,2 miliardi) verso i quali le esportazioni di sistemi militari sono andate crescendo soprattutto negli ultimi anni. E non vanno dimenticati, ancora, altri Paesi come la Turchia (2,7 miliardi), l’India (1,6 miliardi), il Pakistan (1,2 miliardi). E che dire, ancora, degli avamposti della formazione jihadista e dei Paesi da cui provengono numerosi “foreign fighters” (spesso ex militari). Dalla Siria (16 milioni) alla Libia (353 milioni) fino all’Algeria (quasi 1 miliardo). Ma non basta. Perchè, secondo alcuni rapporti confidenziali, anche Paesi come Qatar o Kuwait finanzierebbero il sedicente Stato islamico. Paesi che l’Italia ha armato. Con il Kuwait, infatti, risultano autorizzazioni per 118 milioni solo dal 2008 a oggi; per il Qatar la cifra sale: 320 milioni. ZERO TRASPARENZI -Insomma, una marea di affari. E, di contro, zero controlli. O, meglio, grazie soprattutto ai controlli ridotti a zero si può fare una marea di affari. Nonostante il fine della legge del 1990, infatti, col passare del tempo, come emerge dal report, il monitoraggio è venuto via via meno. Mentre, infatti, le prime relazioni consegnate al Parlamento riportavano con precisione il sistema d’arma esportato per quantità e valore, la ditta produttrice e il paese destinatario, nel corso degli anni queste informazioni sono state scorporate e “dimenticate”. Il motivo? Si legge nella relazione: “nel corso degli ultimi anni è stato reso impossibile conoscere le singole operazioni svolte dagli istituti di credito: un fatto che ha favorito soprattutto i gruppi bancari esteri – come BNP Paribas e Deutsche Bank – che, a differenza di gran parte delle banche italiane, non hanno adottato politiche di responsabilità sociale riguardo ai finanziamenti all’industria militare e ai servizi per esportazioni di armi”. Ecco. Pecunia non olet. Specie se a guadagnare, oltre alle lobby, sono le banche armate. Non solo. Nel contempo, infatti, è venuta meno anche l’attività di controllo del Parlamento. Solo dopo anni di pressioni, lo scorso febbraio le competenti commissioni della Camera sono tornate ad esaminare la Relazione governativa. “Ma la seduta – si legge ancora nella relazione – è durata meno di un’ora e al momento non si ha notizia di ulteriori iniziative in Parlamento”. Peraltro gli stessi relatori di maggioranza della discussione in sede parlamentare hanno sottolineato le problematiche derivanti da una Relazione governativa ormai incapace di fornire un livello sufficiente di conoscenza. Il deputato dem Vincenzo D’Aurienzo ha infatti dichiarato che il documento è “di mole notevole e di difficile lettura”, tanto che si auspica “che in futuro il Governo presenti un documento più snello e comprensibile”. Repetita iuvant: “comprensibile”. Tw: @CarmineGazzanni
Business Made in Italy. Dal Kuwait al Qatar, vendiamo armi pure ai regimi amici della jihad. In 15 anni contratti da 54 miliardi di euro
Vergogna made in Italy. Dal Kuwait al Qatar, vendiamo armi pure ai regimi amici dell'Isis. Nel silenzio del Governo