Tra un dibattito sul referendum e una commissione sulla legge elettorale, Denis Verdini è entrato nel Governo. Giusto in tempo per avere un ruolo di peso sulla Legge di Bilancio. Facendosi beffe dei diktat che nei mesi scorsi sono arrivati dalla minoranza del Partito democratico. In tanti, a vario titolo e con diversi toni, avevano messo in guardia Matteo Renzi con il concetto-base: “Mai con Verdini”. E invece con la fusione alla Camera della componente di Alleanza liberalpopolare-Autonomie (Ala) e parte di Scelta civica (Sc), l’ex braccio destro di Silvio Berlusconi è ufficialmente entrato in maggioranza. Sì, perché uno dei suoi nuovi compagni di viaggio è il viceministro, Enrico Zanetti, segretario di Sc.
AMARCORD – Certo, nulla di nuovo sotto il sole: l’operazione era in cantiere da tempo, provocando violenti scontri politici nel partito (ex) montiano. Mercoledì, insomma, c’è stato solo l’espletamento della formalità. Ma dalla sinistra del Partito democratico, distratta dalla partita sull’Italicum, non c’è stato alcun coro di irritazione. Anzi, al contrario ha prevalso la linea del silenzio. Eppure la galleria delle prese di posizioni contro Verdini è lunga. “Se tanti dei miei non ci pensano più e non gli fa più schifo niente, io invece dico che su certe cose non si può scherzare. Io non sono d’accordo”, diceva a marzo l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, sull’ipotesi di un ingresso nella maggioranza di Verdini. Il passaggio è stato ancora più clamoroso: il fondatore di Ala è entrato con Zanetti al Governo dal portone di via XX Settembre. E un altro punto di riferimento della minoranza, Roberto Speranza, ad aprile, era stato ancora più duro: “Se Verdini entra nella maggioranza, è la fine del Partito democratico. Semplicemente il Pd non c’è più”. L’altro esponente dell’opposizione interna a Renzi, Gianni Cuperlo, a maggio, non riusciva a capacitarsi del possibile cambio di scenario: “Non capisco un’alleanza con qualcuno che rappresenta tutto ciò che negli ultimi quindici anni abbiamo combattuto”.
L’URLO DI MONTI – L’unico a inalberarsi di fronte alla novità è stato Mario Monti, ma non certo per parlare del Pd. L’ex presidente del Consiglio ha cercato solo di tutelare la creatura politica, che aveva fondato e poi abbandonato: “Si tratta di un’operazione che snatura completamente l’ispirazione originaria che diede vita a Scelta civica, condotta con soggetti che sono in totale contrasto con i valori in base ai quali circa tre milioni di cittadini diedero il loro voto nel febbraio 2013 ad un movimento nato da poche settimane, esercitando un’influenza decisiva sull’esito di quelle elezioni”. Monti ha quindi espresso il personale rammarico perché “in quell’occasione, accanto a tante donne e uomini che, eletti, hanno servito con lealtà e dignità, vi fosse anche chi ora vuole portare una parte del movimento a legarsi con il senatore Verdini”.