Non era usuale, trenta o quarant’anni fa, parlare di ambientalismo sui giornali: il tema non era diventato ancora di moda. Giovanni Valentini, come racconta lui stesso nel suo nuovo libro Il romanzo del giornalismo italiano (La nave di Teseo), cominciò a farlo prima da direttore del settimanale L’Europeo, alla fine degli anni Settanta, pubblicando come inserto al centro del giornale un’inchiesta a più mani in dodici puntate sul ‘Malpaese’, cioè sui guasti provocati al territorio della Penisola; poi nei sette anni della sua direzione all’Espresso (1984-1991), varando la ‘Goletta Verde’ con Legambiente di Ermete Realacci e sostenendo il referendum contro il nucleare nel 1987; e successivamente sulle pagine di Repubblica, di cui è stato anche vicedirettore. Oggi scrive per Il Fatto Quotidiano, dove tiene la rubrica “Il Sabato del Villaggio”.
Che cosa pensa Valentini, alla luce della sua lunga militanza professionale, del ‘processo all’ambientalismo’ che s’è aperto ormai nel dibattito pubblico?
“Ne penso tutto il bene possibile. Era ora che si avviasse un confronto sui meriti e demeriti dell’ambientalismo, sui suoi pregi e difetti. Senza una certa carica originaria di radicalismo, non staremmo qui a parlare di inquinamento, di clima, di riscaldamento globale, di energie rinnovabili. Ma è tempo di fare una riflessione collettiva su quella che io chiamo una ‘rifondazione ambientalista’, per aggiornare e rafforzare la cultura su cui poggia questa mobilitazione civile”.
E da dove deve cominciare, secondo lei, una riflessione critica?
“Critica e autocritica, direi. Deve cominciare dalle disuguaglianze che affliggono il mondo, tra il Nord e il Sud del pianeta, tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri. Ho sempre sostenuto che l’ambientalismo rappresenta, nello stesso tempo, il motore e il limite di una crescita sostenibile. È un progetto, una visione della società. Ma per realizzarlo occorre modificare il nostro attuale modello di sviluppo economico-sociale”.
Allora, si tratta di una ‘ideologia’ come dice Giorgia Meloni?
“Chiamiamola come vogliamo, non fermiamoci alle parole: personalmente, preferisco dire che l’ecologia è una cultura. E questa cultura si basa su un’idea fondamentale di solidarietà umana e civile. Non a caso Papa Francesco insiste tanto sulla questione ambientale. La presidente Meloni, però, si contraddice quando afferma che l’ambientalismo non deve interferire con la ‘sfera economica’: se non interferisse, non modificherebbe i nostri processi produttivi, non correggere gli squilibri economici e non inciderebbe perciò sulle disuguaglianze. Nessuno s’illuda di salvare l’ambiente lasciando le cose come stanno”.
Lei ritiene, invece, che così si possano annullare le disuguaglianze?
“Tutt’altro! Come insegnava Norberto Bobbio nel suo famoso libro Destra e Sinistra, le disuguaglianze non si possono cancellare, ma si possono e si devono ridurre il più possibile. Questo è il senso del riformismo contrapposto al massimalismo. E l’estremismo, per citare il titolo di un’opera di Vladimir Lenin, è ‘la malattia infantile del comunismo’”.
Vuol dire che anche i Verdi sono massimalisti?
“All’inizio, come dicevo prima, sicuramente lo sono stati: altrimenti, non sarebbero riusciti a sfondare il muro dell’indifferenza e neppure a farsi sentire. Oggi hanno la responsabilità di mettere i piedi per terra, di diventare più realisti e pragmatici, come stanno facendo – per esempio – i Verdi tedeschi e quelli olandesi di Frans Timmermans, il padre del Green Deal europeo”.
Non dovrebbero farlo anche quelli italiani?
“Certo! Ho da sempre grande rispetto e amicizia per i Verdi italiani. Ma è un fatto che non riescono a superare la soglia elettorale del 2 o 3 per cento. Già ai tempi di Alfonso Pecoraro Scanio, prima ministro dell’Agricoltura e poi dell’Ambiente, coniai provocatoriamente l’espressione ‘ambientalismo sostenibile’: per dire, appunto, che bisogna predicare e soprattutto praticare un ambientalismo compatibile con le ragioni dello sviluppo, con il progresso, con gli stessi interessi dei cittadini”.
Ma, scusi, non si rischia così di scendere a compromessi, di sfidare una certa ambiguità?
“Dipende. Da chi lo fa e da come si fa. Difendere l’ambiente non significa difendere l’esistente. Bisogna far capire agli imprenditori e alle aziende che l’investimento green è il miglior investimento che si possa fare: in termini economici e anche in termini sociali. E tanti si stanno già muovendo in questa direzione”.
Non mi dirà che anche lei si sta convertendo al nucleare…
“Guardi, c’è un solo caso in cui credo che non mi convertirò mai: quello della religione cattolica, di cui sono fedele praticante. Quanto al nucleare, ricordo la lezione del professor Carlo Rubbia, Premio Nobel per la Fisica e senatore a vita. Lui sosteneva che la questione energetica si può risolvere soltanto con un bouquet, un mix di fonti, privilegiando quelle rinnovabili come il sole e il vento dispensate da madre natura e riducendo progressivamente i combustibili fossili, come il petrolio o il carbone, inquinanti e nocivi, che peraltro sono in via di estinzione”.
E il ‘nucleare pulito’? Lei, insomma, è favorevole o contrario?
“Al momento, è una chimera. Molti ne parlano ignorando, o fingendo di ignorare, un elemento fondamentale: il cosiddetto ‘nucleare pulito’ si alimenta con le fonti pulite. Per prima cosa, quindi, bisogna sviluppare le rinnovabili che sono già disponibili. Poi, se la ricerca tecnologica riuscirà a garantire una produzione nucleare sicura, senza scorie, passando magari dalla fissione alla fusione, non vedo perché dovremmo rifiutarla. Fino ad allora, e secondo gli esperti ci vorranno dai 30 ai 50 anni, non possiamo che affidarci alle rinnovabili. La guerra in Ucraina, privando l’Europa del petrolio russo a basso costo, sta spingendo i Paesi occidentali a cercare nuove risorse energetiche. E il conflitto in Medio Oriente dimostra una volta di più che sul piano geo-politico occorre diversificare le fonti di approvvigionamento. Ma questa, sul ‘nucleare pulito’, non deve diventare un’altra guerra di religione”.