Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha sostenuto che non sarebbe stata una bestemmia chiedere sacrifici ai banchieri. Eppure lo stesso Giorgetti lo scorso anno ha praticamente fatto marcia indietro sulla tassa sugli extra-profitti sugli istituti di credito. Stefano Fassina, economista e oggi presidente dell’associazione Patria e Costituzione, come valuta la soluzione che ha escogitato il ministro in questa Manovra per le banche?
“Qui non si tratta di valutazioni soggettive. Qui ‘parlano’ senza alcuna distorsione politica i numeri. Sono scritti nel Documento programmatico di bilancio, a pagina 18. Lo sbandierato ‘contributo delle banche’ è semplicemente il rinvio di un anno nell’utilizzo delle detrazioni fiscali. Nel 2026 e nel 2027 recuperano quanto anticipato. In sostanza, il ‘sacrificio’ chiesto all’intero sistema bancario e assicurativo è di circa 150 milioni di euro, a fronte di un’impennata di utili di decine e decine di miliardi. Ma voglio sottolineare un punto. Le banche ovviamente non sono un nemico. Sono un ingranaggio decisivo per il buon funzionamento dell’economia. La loro salute è un bene pubblico. Ma perché i loro azionisti devono godere di privilegi smisurati in una fase dove milioni di famiglie non riescono ad accedere alla Sanità per prestazioni essenziali? Gli utili distribuiti pagano una cedolare secca del 26%, ossia un’aliquota inferiore a quella applicata sul salario di un operaio specializzato. L’obiettivo non è far piangere i ricchi. È un minimo di equità e di quella progressività fiscale scritta ancora nell’Art 53 della nostra Costituzione. Infine, perché il cosiddetto ‘contributo’ dovrebbe essere limitato alle banche e alle assicurazioni? Sono tanti i settori dove la stragrande maggioranza delle imprese hanno mietuto utili eccezionali negli ultimi anni: dal farmaceutico alla difesa. Perché non si può chiedere un ‘contributo’ anche a loro e ai loro azionisti?”
Complessivamente che ne pensa di questa terza legge di Bilancio dell’esecutivo Meloni?
“È l’ennesima manovra di galleggiamento, piena di ‘segnali’ politici ai riferimenti sociali dei partiti di maggioranza, sostanzialmente irrilevante sul piano macroeconomico, ossia ai fini delle condizioni per migliorare e riqualificare, anche in senso ambientale, le nostre filiere produttive. Ha un evidente segno di classe: pagano lavoratrici e lavoratori, in particolare insegnanti e medici e infermieri e pensionati, sia direttamente sia come portatori di diritti costituzionali alla scuola e alla sanità pubblica. I tagli non li infligge direttamente il governo e la sua maggioranza. L’accetta interviene attraverso la ‘mano invisibile’ dell’inflazione: è stata oltre il 15% dal 2022 al 2024. La propaganda della premier sulle ‘mai cosi tante risorse’ al Fondo Sanitario Nazionale è vergognosa ma emblematica. Nel pubblico impiego, ad esempio, gli aumenti delle retribuzioni previste consentono di recuperare un terzo del potere d’acquisto perduto nel triennio alle nostre spalle. I 100 euro in più al mese che i lavoratori dipendenti sotto i 35.000 euro lordi di retribuzione annua ricevono non saranno sufficienti a compensare i maggiori costi per l’acquisto dai privati di prestazioni sanitarie essenziali o per l’innalzamento delle rette delle mense scolastiche a cui i comuni ricorreranno data la riduzione in termini reali delle risorse a loro disposizione”.
È vero che non si poteva fare di più?
“È vero che gli spazi di manovra sono ristrettissimi perché la politica economica ordoliberista dell’Unione europea, in particolare la politica monetaria, sopravvive al tramonto de ‘La fine della Storia’. Gli Stati dell’Unione europea si muovono sempre più velocemente dal welfare al warfare con il sostegno attivo o la complicità passiva a Bruxelles anche di larga parte dei partiti qui all’opposizione. Oltre a criticare, giustamente, la ‘melonimics’ opposizioni e sindacati dovrebbero alzare lo sguardo e tornare, dopo decenni, a riflettere anche sulla macroeconomia. Può essere che a rilevare le politiche fuori fase della Bce siano solo Crosetto e Tajani? È finita la fase mercantilista, caratterizzata dalla crescita trainata dalle esportazioni extra-Ue. Servirebbe una politica economica, innanzitutto monetaria, di sostegno alla domanda interna. Invece, l’unica domanda aggregata alimentata dai bilanci pubblici è per gli armamenti. Servirebbe correggere le Direttive europee, a partire dalla Bolkestein, che alimentano la svalutazione del lavoro e lo spostamento delle basi imponibili verso Stati a fiscalità minima. In questo contesto, con un debito pubblico così elevato, il cammino è impervio per qualunque governo, come è stato evidente nei decenni alle nostre spalle. Tuttavia, un cammino alternativo, all’insegna della progressività era ed è possibile. A cominciare dai prelievi straordinari sui profitti straordinari e dal recupero di evasione e elusione fiscale da chi può pagare”.
La povertà assoluta nel 2023 ha toccato un nuovo record. Mai così tanti minori e famiglie operaie in povertà.
“Anche su queste pagine, avevamo segnalato che i dati sulla maggiore occupazione sbandierati dal Governo andavano letti correttamente. È lavoro povero, precario, piagato dal part time involontario, legato alla riduzione della produttività. La sostanziale cancellazione del Reddito di cittadinanza e l’ostinata resistenza all’introduzione del salario minimo hanno acuito le tendenze all’impoverimento del lavoro fotografate dall’Istat. Come per la legge di Bilancio, l’intera politica economica del governo ha un segno di classe”.
Si svelano le carte del Veneto sull’Autonomia. Mentre è iniziata la trattativa sulle 9 materie non-Lep, è nel dossier delle 19 restanti materie Lep, cui stanno lavorando governatore e tecnici della Regione, che si celano i veri obiettivi della partita autonomista. E sono materie di peso: i porti e gli aeroporti, le autostrade, la sanità, le sovrintendenze, la produzione e la distribuzione di energia, dagli elettrodotti ai rigassificatori, la scuola.
“L’interpretazione estrema dell’Autonomia differenziata imposta dai Presidenti delle Regioni del Nord è fuori fase storica. Appartiene alla fase del fai da te individuale e delle istituzioni di governo nei territori. Era la favola dell’‘Europa delle Regioni’ dove era il mercato il dominus assoluto e gli Stati nazionali dovevano limitarsi a sciogliere lacci e lacciuoli. La favola è evaporata almeno dai tempi della Brexit e dell’elezione di Trump ala Casa Bianca. La regolazione liberista del mercato unico europeo e dei movimenti globali di capitali, merci, servizi e persone è insostenibile. La politica è tornata in campo. Gli Stati nazionali, in cooperazione per ‘produrre’ beni pubblici europei, hanno ripreso la funzione di protagonisti delle fondamentali politiche pubbliche. Frammentarle in 21 fonti di legislazione esclusiva e governo ‘particolare’ è autolesionismo. Lo pagherebbero, al contrario di quanto sostiene con martellante propaganda il Presidente Luca Zaia, soprattutto le Regioni a più diffuso tessuto imprenditoriale, a cominciare dalla sua”.