“Garofoli spieghi, o si dimetta“. Dopo la notte dalle lunghe manine (più che dei coltelli), il Movimento 5 stelle è intervenuto lapidario chiedendo la testa del capo di Gabinetto del ministro dell’Economia Giovanni Tria. Parliamo di Roberto Garofoli. Sarebbero stato lui, secondo la ricostruzione del Fatto Quotidiano, l’autore della norma sulla Croce Rossa apparsa alla vigilia del Decreto fiscale senza che nulla sapessero il premier Conte e tutti i suoi ministri, che pure erano chiamati a firmarlo. In serata, però, a intervenire (nuovamente) contro la maggioranza pentastellato è stato lo stesso ministro dell’Economia che, da bravo padre, ha difeso a spada tratta il figliuolo, attaccando a sua volta chi aveva osato chiedere le dimissioni di Garofoli.
LA RICOSTRUZIONE – Ma partiamo da principio. La vicenda, raccontata ieri dal Fatto, muove dal retroscena di un pre-consiglio dei ministri di domenica scorsa dai contorni surreali, con il premier Giuseppe Conte che a un certo punto si accorge, in prima persona, di un “articolo n.23” che non aveva mai letto prima, come pure i suoi ministri. Il testo assegna in due articoli 84 milioni di euro in tre anni alla gestione commissariale della Croce Rossa, ente ufficialmente in liquidazione coatta da gennaio, a valere sul Fondo Sanitario Nazionale. Insomma, tanti soldi. Conte chiede l’origine della disposizione, nessun ministro la rivendica, neppure quello della Salute Giulia Grillo, che pure ha compiti diretti di vigilanza sulla Cri che risulta beneficiaria della norma. Il giallo si scioglie solo quando Garofoli, grand commis di molti Governi in passato (a cominciare da quello di Pier Carlo Padoan), spiega che effettivamente quel testo è stato scritto in sede di Ragioneria Generale dello Stato dopo un’interlocuzione con l’ente.
Insomma, secondo alcune indiscrezioni, dietro ci sarebbe la mano non solo di Garofoli, ma anche del Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, già bersagliato dal Movimento 5 stelle dopo le parole (estorte) al portavoce del premier, Rocco Casalino. A sera, però, a cercare di calmare le acque e trattenere al suo posto Garofoli contro le ire gialloverdi, ci prova una nota del Mef che difende la bontà e necessità della norma. Spiega che in parte nasce dall’esigenza di rimediare a “profili di ambiguità” e “lacune” di un vecchio decreto del 2012. Ancora più secco è stato Tria che ha parlato di attacco “privo di fondamento e irrazionale”, dato che la quota di 84 milioni nascerebbe da un fondo di 117 milioni stanziato a partire proprio dal decreto del 2012, necessario per pagare i lavoratori.
SOTTOBANCO – Resta, però, un fatto. Indubitabile. Al di là della eventuale ragione, la norma è stata inserita senza il placet politico di chi avrebbe dovuto comunque apporre la firma su quel decreto. Bene ha detto, tra gli altri, il senatore M5S Elio Lannutti: “Garofoli dovrebbe immediatamente spiegare chi c’è dietro oppure rassegnare subito le dimissioni. Perché una cosa deve essere chiara a tutti: con questo Esecutivo non saranno più tollerate intromissioni e sabotaggi di tecnocrati legati al vecchio governo, mandato a casa dagli italiani”. Non si chiede altro: perlomeno chiarire un inserimento di cui non sapeva nulla neanche il presidente del Consiglio. Un chiarimento. Necessario per far sì che il cambiamento sia realmente tale. Nel rispetto dei cittadini. Lo sanno i ministri tutti. Devono saperlo anche i tecnici e i capi di gabinetto voluti da ogni singolo ministro. Ed è per questo che Tria, più che difendere Garofoli, dovrebbe lui per primo chiedere spiegazioni.