Un taglio delle tasse sul lavoro sul modello tedesco. “Con una riduzione di entità pari all’incirca al 6% del monte-retribuzioni lordo”. Puntando a “un taglio dell’aliquota contributiva” prima per i giovani e poi “ampliando la platea”. Il senatore del Pd ed esperto di lavoro, Pietro Ichino, pur difendendo il Jobs Act, ammette in questa intervista a La Notizia che c’è ancora molto da fare. Proprio come chiesto dalla Corte dei Conti.
Dopo anni di dibattito, in Italia ci ritroviamo a parlare ancora di taglio al cuneo fiscale…
In realtà, in questi anni qualche cosa di rilevante è accaduto: siamo reduci da un biennio nel quale è stata applicata una misura di forte riduzione del cuneo, sia nella componente fiscale (Irap e Ires) sia nella componente contributiva, che è stata azzerata per le assunzioni a tempo indeterminato nel 2015, fortemente ridotta nel 2016.
Però quelle misure erano solo temporanee.
Sì, ma si sono rivelate molto efficaci per rimettere in moto un mercato del lavoro che, nel 2014, appariva letteralmente infartuato. Per altro verso, quelle misure sono servite anche per dimostrare una notevole elasticità della domanda di lavoro, la quale ha risposto alla riduzione del cuneo con un forte aumento dei flussi, in stretta correlazione con i segmenti cui il beneficio si applicava. Questa elasticità non era affatto scontata. Anzi, prima del 2015 c’era persino chi la negava.
Ma alla fine il taglio, fatto anni fa dal Governo Prodi, si è rivelato inefficace?
Ma era un taglio di un’entità molto modesta. Ora il problema è quello di realizzare un taglio del cuneo che lo allinei a quello tedesco: ciò significa operare una riduzione di entità pari all’incirca al 6% del monte-retribuzioni lordo; o, se si preferisce, a un quinto dell’attuale contributo pensionistico. E non come misura congiunturale, ma come misura strutturale, permanente.
Per un taglio di vero servono non poche risorse: il difficile è come reperirle in breve tempo. Qual è la soluzione ideale?
Si può pensare a un taglio dell’aliquota contributiva che in una prima fase riguardi soltanto le nuove assunzioni degli under 29 e delle donne, ma attribuisca ai lavoratori che ne beneficiano il diritto a beneficiarne anche per le assunzioni successive. In una seconda fase si potrebbe ampliare la platea, fino a coprire tutta la forza-lavoro. In questo modo il costo iniziale potrebbe rientrare nei limiti di una manovra normale.
Un beneficio di questo genere limitato alle donne non violerebbe il divieto di discriminazione di genere?
No, se lo si imposta come una “azione positiva”, volta a superare una situazione di disparità permanente nel tessuto produttivo: il tasso di occupazione femminile è al 47%, a fronte di un tasso generale del 57%. Se la misura è introdotta con questa giustificazione e con la previsione del progressivo superamento della disparità di trattamento via via che la misura stessa verrà estesa a tutta la forza-lavoro, non c’è alcun contrasto con il divieto di discriminazione.
Perché nel Jobs Act non è stato previsto un intervento di riduzione della pressione fiscale?
Non è così: le ricordo che nel biennio passato, oltre alla misura fortissima di decontribuzione per una parte delle nuove assunzioni, è entrata in vigore per le imprese anche una riduzione dell’Ires e dell’Irap, la “tassa sul lavoro”.
E il Governo in carica sta svolgendo un buon lavoro in questa direzione?
Di questo programma si sta occupando molto intensamente il vice-ministro dell’Economia Enrico Morando. Credo che i primi frutti del suo lavoro si vedranno già nel DEF che sta per essere pubblicato, e poi, ovviamente in modo molto più preciso, nella legge di bilancio per il 2018.
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