Salvini esulta per aver avviato il progetto del Ponte sullo Stretto. Ma, semmai si farà davvero, vedremo una nuova cattedrale nel deserto.
Ermanno Selci
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Gentile lettore, di Salvini non condivido nulla, neppure la passione per la nutella, però onestà intellettuale vuole che le opinioni non siano demonizzate a priori ma valutate oggettivamente, a prescindere da chi le formuli. Francamente del Ponte sullo Stretto non riesco a formarmi un’opinione conclusiva. Le spiego. Nel 1986 fui mandato a Londra dal mio direttore Arrigo Levi per intervistare un ingegnere inglese che aveva elaborato un progetto “rivoluzionario” per il ponte di Messina. Ai finanziamenti di quello studio aveva partecipato la Fiat di Gianni Agnelli, che era uomo di grandi vedute, non un volgare affarista. Tuttavia già allora le opinioni erano molto divergenti: per alcuni il ponte era una struttura rischiosa per fattori idrogeologici (correnti, fondo marino, venti, ecc.) e per altri era invece un’opera sicura e un investimento strategico per il Sud così come lo erano state l’Autostrada del Sole e la Roma-L’Aquila (ma non i grandi insediamenti industriali che divennero cattedrali nel deserto: l’acciaieria di Taranto, l’impianto chimico di Brindisi, ecc.). All’epoca era indubbio che “oltre il ponte, niente”, nel senso che Calabria e Sicilia non avevano reti stradali e ferroviarie dignitose e quindi il ponte rischiava di essere un trait d’union tra due nulla. Forse la situazione infrastrutturale oggi è migliorata, ma non ne sarei sicuro. In conclusione, 37 anni dopo quella mia intervista rimango incerto tra le tesi “ponte sì” e “ponte no”.
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