Sfiancati dalla riforma del 2013, che porta la firma del Governo guidato da Enrico Letta, la progressiva abolizione del finanziamento pubblico (rimborsi elettorali per la precisione) azzerato a partire dal 2017, ha costretto i partiti – ad eccezione del Movimento Cinque Stelle che rifiuta ogni contributo statale – a correre ai ripari. E a farne le spese è stata soprattutto la trasparenza. “Se da un lato infatti lo Stato spende meno, dall’altro l’attuale sistema è talmente complesso da renderne il monitoraggio molto più complicato”, avverte l’ultimo dossier dell’associazione Openpolis sui soldi alla politica.
Effetto distorto di una legge che, se da un lato, ha più che dimezzato le entrate dei partiti, passate da 88,6 milioni di euro nel 2013 a 33,5 nel 2017, dall’altro ha innescato un processo moltiplicatosi esponenzialmente negli ultimi anni. “Dalle fondazioni politiche, alle associazioni, passando per gruppi parlamentari e think tank, la galassia di strutture che svolgono attività politiche sono aumentate”. A poco è servito, del resto, l’introduzione del sistema del 2×1000 per rimpinguare, su base volontaristica, e dell’incentivo fiscale delle donazioni private verso i partiti (con la possibilità di detrarre il 26% sulle erogazioni liberali) per rimpinguare le casse dei partiti. Queste forme alternative di finanziamento, infatti, stentano a decollare.
“E mentre per il 2×1000 questo può essere considerato normale, trattandosi di una novità, quello che colpisce è il calo delle donazioni private ai partiti”, fa notare ancora il dossier di Openpolis. Un calo, anche in questo caso, certificato dai numeri: tra il 2013 e il 2017, le donazioni ai partiti effettuate da persone giuridiche si sono ridotte da 2,46 milioni a 700mila euro, mentre quelle da persone fisiche sono diminuite drasticamente da 38,4 a 15,3 milioni di euro. Ma se i soldi sono sempre meno, i costi della politica restano sempre gli stessi. Come si finanziano allora i partiti? L’unica entrata statale sopravvissuta alla scure della riforma Letta, restano i contributi ai gruppi parlamentari di Camera e Senato.
Soldi che dovrebbero finanziare l’attività istituzionale dei gruppi e che, in questo caso, anche i Cinque Stelle percepiscono: assumere gli staff, gli esperti legislativi per la redazione dei disegni di legge e la stesura degli emendamenti. “Un confine però, quello tra attività istituzionali e attività di partito, che è molto sottile”, sottolinea il dossier. D’altra parte, l’ammontare di soldi incassato dai gruppi parlamentari tra il 2013 e il 2017 è stato di gran lunga superiore a quello ricevuto dei partiti. E, non a caso, molti partiti hanno utilizzato questi fondi “per svolgere attività più politiche che istituzionali”. Dalle manifestazioni di partito al materiale per la campagne elettorali. In parallelo, si è registrata la crescita di think tank, fondazioni e associazioni politiche.
“Queste strutture sono diventate delle realtà parallele ai partiti, sfruttate dagli stessi per portare avanti una serie di attività”. A cominciare dalla raccolta fondi. Fino a poco tempo fa, peraltro, non era loro richiesto quel livello di trasparenza imposto ai partiti: impossibile quindi analizzare i loro bilanci e le donazioni ricevute. Fino alla legge anticorruzione targata M5S che ha equiparato ai partiti tutte le fondazioni, associazioni e comitati che risultino collegate – per composizione o finanziariamente – ai partiti stessi.