La Sveglia

Un anno dopo Satnam Singh, i caporali sono ancora lì

Un anno fa Satnam Singh è stato lasciato morire dissanguato, con un braccio amputato e abbandonato su una cassetta della frutta. Ieri è iniziato il processo per omicidio volontario. Ma fuori dal tribunale tutto è rimasto al suo posto. Lo sfruttamento ingrassa nei campi. I caporali non hanno perso il vizio. E lo Stato, ancora una volta, ha voltato lo sguardo.

La legge 199 contro il caporalato esiste dal 2016 ma resta inapplicata: le sezioni territoriali previste non sono mai state istituite, i controlli sono insufficienti, le condanne rare. La riforma della Bossi-Fini è promessa da vent’anni. Nel frattempo, le persone migranti continuano a lavorare senza diritti, sotto ricatto, nelle retrovie della legalità.

Nel 2023 le richieste per entrare regolarmente in Italia sono state sei volte superiori alle quote fissate dal governo. In provincia di Latina solo il 13% dei braccianti ha ottenuto un permesso. Gli altri finiscono nel nero. Nelle mani di chi può decidere se vivi o morti. Come Satnam.

Nel Nord, tra le vigne del Prosecco e le colline del Barolo, lo sfruttamento è lo stesso. Cambiano i marchi, non le condizioni. Il caporalato è diventato strutturale. Una componente del modello produttivo. Un patto scellerato tra profitto e omertà.

Dopo la morte di Satnam si è parlato di simbolo. Ma i simboli non bastano. La competizione sfrenata e il profitto a ogni costo hanno normalizzato l’illegalità. La morte è un effetto collaterale previsto.

Forse, chissà, il processo farà rumore, forse. Ma senza riforme vere, senza volontà politica, senza giustizia sociale, tra un anno saremo ancora qui. Con un altro nome. E un altro braccio mozzato.