Nelle ultime settimane si è acuita la discussione, mai sopita, dei magistrati che andrebbero troppo in televisione. Sono finiti sotto accusa Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri (nella foto), Alfonso Sabella, la procuratrice Olimpia Bossi del caso Mottarone, il procuratore Alberto Liguori del caso Barbara Corvi e alcuni altri. Diciamo subito che i magistrati, al di là di come la si pensi, funzionano.
Ogni volta che si presentano sul piccolo schermo le curve d’ascolto aumentano nonostante il periodo di assoluta impopolarità in cui versa la categoria, anche a seguito del grave crollo di credibilità che sta subendo il Csm. Gli appuntamenti quasi fissi di Davigo da Floris, di Gratteri dalla Gruber oppure di Palamara quando andava da Giletti e di altri in tv si traducono spesso e volentieri in aumenti di share di 1/2 punti percentuale: a conferma di ciò, poche sere fa Otto e mezzo con Gratteri ha siglato l’8% mentre DiMartedì con Davigo ha superato il 6% di share.
Ma come mai i magistrati funzionano ancora? Evidentemente rimangono punti di riferimento in un momento di disorientamento e di insicurezza. La pandemia ha stremato il Paese, la situazione economico-sanitaria continua a essere molto grave e la paura del futuro attanaglia tutti. Ecco perché questa figura – che unisce una lettura del diritto a una lettura dei fenomeni della realtà, garantisce sul fatto che lo Stato di Diritto possa in certa misura aiutare i cittadini e trasuda competenza – costituisce ancora un modello rassicurante.
Certo, non siamo ai tempi di Mani pulite quando i Pm erano quasi delle rockstar e andavano in tv celebrati e acclamati da tutti: ora è diverso, lo vediamo dai sondaggi. Eppure il loro appeal non perde di peso. Uno come Gratteri, per esempio, funziona perché rappresenta in programmi di grande ascolto una tematica che è stata quasi completamente espulsa dai media televisivi, tranne eccezioni come Report e Presa diretta su Rai Tre, Fatti e Misfatti su TgCom24, Atlantide su La7, Speciale TG1 e Tv7, soprattutto grazie ai contributi dalla Calabria di Riccardo Giacoia, e poco altro: quindi il tema della criminalità organizzata è vissuto come una forma di disuguaglianza, di oppressione che si aggiunge a quelle che già si vivono per ovvi motivi storici.
Davigo funziona perché ha un linguaggio tecnico ma comprensibile, sa spiegare i labirinti del diritto e incarna un’epoca in cui c’è voglia di riscatto popolare rispetto alla mala politica. Gherardo Colombo funziona perché è diventato una sorta di grande saggio, un intellettuale che parla alla sinistra, attivista dei diritti civili, quindi incontra il consenso di un’opinione pubblica che comunque in Italia può contare su uno zoccolo duro. Queste singole figure possono cambiare il percepito della magistratura? No, questo non può accadere.
Il Csm ha preso la strada più sbagliata: dopo i vari scandali, avrebbe dovuto sollecitare una riforma di concerto con la politica e sciogliersi per dare un forte segnale di cambiamento. In questa fase la magistratura è debole, così come la politica e il giornalismo, che soffrono a livello strutturale e reputazionale. Per cui da una parte ci sono Pm che vanno in tv e funzionano perché parlano di problematiche che alla gente interessano. Dall’altra c’è un’istituzione, la Magistratura, che ormai non ha più alcuna attendibilità e vanifica i tentativi di singoli di risultare credibili. È la contraddizione specifica di questo periodo, dalla quale non sembra esserci via d’uscita. Il perseverare in una logica di casta del Csm non fa che mettere in pericolo anche la credibilità di tutti quei giudici che sono in prima linea e rischiano la vita per combattere il malaffare, catalizzando l’intesse del pubblico.