di Peppino Caldarola
Il Pd di oggi assomiglia molto a quello che nacque con molto travaglio scoprendo che non aveva un leader e che soprattutto non sapeva cosa mettere assieme e che cosa l’avrebbe unito. Allora implorarono Veltroni di fare il miracolo. A giudicare da quel che è successo dopo, il risultato che l’ex sindaco di Roma ottenne resta la migliore performance. Oggi il Pd cerca un leader ma si accontenterebbe anche di un mezzo-leader, un buon uomo (non si può scrivere una buona donna) che faccia il miracolo di impedire il crollo. Come allora questo Pd non sa che cosa mettere assieme e che cosa ha prodotto come nuova cultura. In più deve registrare due fatti deflagranti.
Il primo è lo scontro fra le correnti che ormai è senza regole. Il secondo è che una parte della sua base è in disaccordo con la scelta del governo Letta e non trova punti di riferimento nello stato maggiore allargato.
Qui si registra il primo vero fallimento dei due contendenti delle primarie. Bersani è riuscito nel miracolo di sbagliarle tutte: la campagna elettorale, il giudizio sul voto, il dopo voto, le scelte per il Quirinale. Nei partiti occidentali dopo questa serie incredibile di insuccessi si manda a casa l’autore e gli autori del disastro.
Rottamati e rottamatori
Il secondo fallimento è quello di Renzi, almeno di qualche novità dell’ultima ora. Renzi ha destabilizzato il gruppo dirigente, si sta accorgendo che aver messo sotto accusa D’Alema e Veltroni non ha aggiunto niente al Pd anzi gli ha tolto molto, non sa che pesci prendere e che cosa fare di se stesso, rischia di fondare una corrente sul nulla cosmico, la corsa per la leadership diventa una fuga nel vuoto perché se si consuma il Pd il “caso Renzi” non esiste più nella politica italiana. C’è a questo punto una via d’uscita? Probabilmente sabato, se non prevarrà il “cupio dissolvi”, si riuscirà a trovare un nome che potrà accontentare tutti. Costui o colei sarà di fronte a un’impresa improba. Soprattutto perché il voto e il dopo voto consegnano l’immagine di un partito senza radicamento sociale. Come ha scritto lucidamente Franco Cassano sull’ “Unità” di due giorni fa la base elettorale del Pd non comprende le nuove figure che sono sulla scena, dal nuovo lavoro autonomo, impresa e nuova intellettualità di massa, alle area più acute del disagio sociale. Gli resta un grumo di militanti che ormai fa prevalere il suo esser “contro” sulla cultura del fare.
Pensare positivo, rischiare nuovi progetti sembrano ipotesi lontane da una base che sta rivelando la sua ansia identitaria che trova nella demonizzazione assoluta del nemico ventennale. E’ la debacle della cultura riformista che è gradualista, ragiona sui rapporti di forza, cerca agganci nella realtà sociale più vivace e positiva. Non è ragionevole immaginare che la situazione sia senza via d’uscita. I partiti non muoiono così. I partiti muoiono quando c’è la combinazione di fattori interni disgreganti e di fattori esterni violenti. Dc e Psi morirono per il combinato disposto di una crisi di legittimazione del gruppo dirigente, per l’atonia della base, per l’incombere della questione giudiziaria.
Il Pd deve contrastare, invece, un solo un dato strutturale che è la crisi verticale di una gestione, quella di Bersani, che si era presentata più di sinistra, che appariva raggrumata attorno a un non-leader, che faceva immaginare un corso degli eventi miracoloso al punto da non richiedere l’intervento attivo della politica.
L’ultima occasione
Il Pd può evitare di esalare l’ultimo respiro se ritrova un minimo di coesione, il suo “primum vivere”, se imposta una strategia di ascolto con il suo mondo elettorale, se riforma una cultura riformista su un progetto e non solo sulla eliminazione del nemico. Probabilmente bisognerà rimettere le lancette un po’ indietro per andare avanti.
Bisogna che il Pd discuta e rimuova la stagione di Bersani, con il suo frontismo bonsai, che sappia parlare agli italiani che vogliono uscire dalla crisi senza farsi distrarre dall’ondata di protesta, se richiama in servizio le sue forze migliori. In questo momento al Pd più che un leader servono intelligenze e intelligenze non politiciste. Serve, cioè, capire se vuole stare in questo mondo in subbuglio prendendosi qualche rischio ma apparendo come una forza responsabile non attratta dal mito dell’opposizione. Al Pd, infine, serve prendere atto che non c’è solo la sua crisi.
Il mondo berlusconiano è in grave affanno. Il mondo dei 5 stelle non sa cosa fare dell’enorme consenso che ha ricevuto. Se sabato penseranno positivo potranno ancora farcela.