Proseguono le indagini della Procura di Potenza nell’ambito dei tre filoni dell’inchiesta che tocca il Centro oli dell’Eni a Viggiano, l’impianto Total di Tempa Rossa e il porto di Augusta (Siracusa). Nell’ambito del primo filone sulle attività di smaltimento dei rifiuti prodotti dello stabilimento Eni, si apre un altro capitolo, forse il più torbido e nauseabondo, di tutta la vicenda. Si indaga ora, infatti, anche per disastro ambientale. Per quel fiume di liquidi inquinanti e rifiuti pericolosi finiti, per la Procura di Potenza, nei pozzi. In campo sono scesi i carabinieri del Noe e sono migliaia le cartelle cliniche acquisite negli ospedali lucani per verificare le patologie presenti nella regione del petrolio, tra cui anche quelle relative ai tumori.
Insomma, dopo aver portato alla luce sistema “illecito” di smaltimento di rifiuti delle attività estrattive in Val d’Agri, ora una parte delle attività degli inquirenti si concentra su quanto e come la lunga serie di reati contestati agli arrestati possa aver fatto male alla salute dell’ambiente e delle persone. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro Oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
L’ENI RESPINGE LE ACCUSE Per ora l’Eni continua a ribadire, come aveva fatto sapere anche nei giorni scorsi, che “lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro oli” di Viggiano (Potenza) è “ottimo secondo gli standard normativi vigenti” facendo riferimento ai risultati emersi da “studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale e autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale”. Eppure, come si legge nell’ordinanza del gip, emergerebbe un “risparmio dei costi del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli” con “rifiuti speciali pericolosi” che venivano “dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita” con un codice che li indicava come “non pericolosi”, e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento), e con “un trattamento non adeguato e notevolmente più economico”.
LA VERSIONE DEGLI INQUIRENTI Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo “sistema” sarebbe tra il 22% e il 272% (in base a diversi preventivi acquisiti), e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno. La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo “Costa Molina 2″ (sotto sequestro), in cui “i liquidi venivano reiniettati, sebbene l’attività di reiniezione – precisa il gip – non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose”. Anche su questo punto, dagli studi dell’Eni emerge che “le acque di reiniezione non sono acque pericolose, né da un punto di vista della normativa sui rifiuti, né da un punto di vista sostanziale”, e “l’attività di reiniezione svolta presso il centro oli” è “conforme alla legge italiana e alle autorizzazioni vigenti” e “risponde alle migliori prassi internazionali”.
LE INTERCETTAZIONI Senza dimenticare le emissioni in atmosfera della struttura, che per il gip è “uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero”: in questo caso per “celare le inefficienze dell’impianto”, “i vertici del centro oli decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri” con una “condotta fraudolenta“, ovvero dando una giustificazione tecnica che “non corrispondeva al vero” o “diversa da quella effettiva”. Il tutto sarebbe testimoniato da alcune lampanti intercettazioni. “Io ora preparo le comunicazioni… ci inventiamo… una motivazione”. E in qualche caso sopraggiunge anche lo spavento: “Mi si è gelato il sangue”, “mi sono cagato sotto”, si dicono a telefono o tramite sms.