Donald Trump si conferma maestro dell’attacco personale, persino davanti alle parole di chi invoca misericordia e giustizia. L’intervento della vescova episcopale Marianne Budde alla National Cathedral ha scosso il presidente: un appello alla compassione verso le persone migranti e le comunità LGBTQI, un monito contro le politiche di esclusione, pronunciato con un linguaggio che non ammetteva ambiguità. La reazione del presidente? L’insulto e l’intimidazione pubblica. Trump ha etichettato Budde come “estremista della sinistra radicale”. Non è nuovo a queste sceneggiate: aveva già sfruttato il sacro spazio di St. John per una foto propagandistica nel 2020, ignorando ogni rispetto per il significato spirituale del luogo e la voce contraria della stessa vescova. Questa volta, però, c’è un ulteriore salto di qualità: si prepara a smantellare le tutele per le cosiddette “aree sensibili”, autorizzando retate in chiese e scuole, simboli di rifugio e inclusione. È la logica dell’oppressione travestita da sicurezza. L’amministrazione Trump non si ferma davanti a nulla: criminalizza. Non importa se queste persone mantengono in piedi settori vitali dell’economia statunitense. Per Trump il bersaglio non è mai il problema da risolvere, ma una leva per consolidare il potere. Mentre Marianne Budde parla di speranza e giustizia sociale, Trump replica con la paura e la divisione. La sua retorica è sempre la stessa: dipingere chi dissente come nemico, alimentare un clima di sospetto e giustificare politiche che negano umanità a intere comunità. Ma la compassione non è una debolezza. È l’unica forza che può salvare un Paese dalla deriva dell’odio.
La Sveglia
Trump non fa prigionieri, profanato pure il sacro
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