Donald Trump è tornato, e con lui il catalogo delle negazioni climatiche. La Casa Bianca ha ripreso il suo vecchio copione: eliminare finanziamenti, smantellare impegni internazionali e fare della crisi climatica un fastidio da cancellare con un tratto di penna. L’uscita degli Stati Uniti dal fondo per le perdite e i danni concordato alla Cop28 e i tagli all’USAid suonano come una condanna per i paesi più vulnerabili: il colosso responsabile del maggior volume storico di emissioni ha deciso che il conto lo pagheranno altri.
Il taglio ai finanziamenti e la fine della giustizia climatica
La ritirata degli Stati Uniti dal fondo per il risarcimento dei danni climatici è una mossa brutale che spazza via anni di diplomazia e sforzi per il riconoscimento della responsabilità storica delle economie più inquinanti. Quel fondo, ottenuto dopo lunghe trattative, rappresentava un primo passo verso una forma di giustizia climatica, seppur limitata. Il contributo statunitense, già misero – 17,5 milioni di dollari – si azzera completamente. In parallelo, il governo Trump ha smantellato la Just Transition Energy Partnership con l’Indonesia, un piano da 20 miliardi di dollari per la transizione dal carbone. Nessuna compensazione, nessun piano alternativo: solo il vuoto.
Ma la vera catastrofe è nei tagli ai finanziamenti per la resilienza climatica. L’amministrazione Trump ha interrotto i fondi USAid destinati alle comunità più esposte agli effetti del cambiamento climatico. Significa lasciare milioni di persone senza risorse per affrontare siccità, alluvioni e ondate di calore. Secondo le analisi, gli Stati Uniti erano responsabili di circa 8 dollari su 100 dei fondi destinati al sostegno climatico globale. Con la loro uscita, quel flusso si riduce drasticamente: dai 11 miliardi di dollari destinati al clima sotto Biden, si scende quasi a zero.
La retorica trumpiana è sempre la stessa: “America first”, a qualunque costo. La lotta contro le emissioni diventa un inganno, il sostegno ai paesi vulnerabili uno spreco, la cooperazione internazionale una minaccia all’industria nazionale. Eppure, gli Stati Uniti rimangono il primo produttore mondiale di petrolio e gas, con un’industria fossile che continua a prosperare grazie a politiche di deregulation e incentivi miliardari. Il paradosso è che mentre la scienza conferma il legame tra il riscaldamento globale e fenomeni estremi sempre più devastanti – incendi record in California, inondazioni in Florida, uragani più intensi – la Casa Bianca decide di oscurare le pagine governative sul clima, censurando dati e proiezioni.
Conseguenze globali: chi pagherà il prezzo?
Le conseguenze di queste politiche non si misureranno solo in tonnellate di CO₂, ma in vite umane. Senza fondi per l’adattamento climatico, le nazioni più fragili saranno ancora più esposte a carestie, disastri naturali e migrazioni forzate. Paesi come il Pakistan, che nel 2022 ha visto un terzo del proprio territorio sommerso da alluvioni, o le nazioni del Sahel, devastate dalla desertificazione, perderanno risorse vitali per sopravvivere.
Il vuoto lasciato dagli Stati Uniti costringerà l’Unione europea e la Cina a colmare la mancanza di fondi, ma il danno è fatto: il meccanismo di finanziamento del clima, già fragile, subisce un colpo che rischia di renderlo inutilizzabile. Mentre il resto del mondo prova a trovare soluzioni, Washington decide di voltare le spalle.
La storia ricorderà questa amministrazione come quella che, davanti alla crisi più grande della nostra epoca, ha scelto di distruggere invece di costruire. Il problema è che il prezzo lo pagheremo tutti.