Durante un convegno, Trump è stato ferito a un orecchio da un attentatore che poi è stato ucciso. Elia Morelli, esperto di geopolitica e redattore di Domino, crede che questo attentato avrà ripercussioni sulle elezioni americane? Se sì, quali?
“Le ripercussioni sulle elezioni americane, a mio modo di vedere, saranno certamente importanti e rilevanti ma non risulteranno determinanti. Questo perché il vantaggio già consolidato da Donald Trump su Joe Biden è davvero notevole. È altrettanto vero che ci sono degli Stati in bilico, tra cui Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia, Arizona e Nevada, dove la distanza tra i due candidati è minima, parliamo di qualche decina di migliaia di voti, e secondo me è qui che l’attentato avrà l’impatto maggiore. Tuttavia, la questione che credo sarà determinante in queste elezioni, secondo me, è un’altra, ossia che gli Stati Uniti sono polarizzati. Da un lato c’è Trump, che è il principale portavoce e interprete degli stati d’animo dell’America più profonda, dall’altro c’è Biden, un anziano signore che sta avendo seri problemi di salute mentale e fisica, che sta faticando a imporre la sua linea e sta subendo un continuo pressing da parte del suo partito affinché si ritiri dalla corsa”.
Biden da tempo non appare in forma. Cosa dovrebbe fare il Partito Democratico americano per evitare di consegnare il Paese al tycoon?
“Penso che il Partito Democratico oggi possa soltanto aumentare le pressioni per chiedere a Biden di ritirarsi dalla corsa. Ritengo, però, che sia una mossa tardiva perché i problemi di salute dell’attuale presidente sono noti da tempo e dovevano pensarci a suo tempo, trovando un candidato alternativo. Tra l’altro, faccio notare che cambiare in corsa un presidente o un candidato presidente, in America viene visto come un atto di debolezza. Ma è altrettanto vero che c’è la stringente necessità di farlo, altrimenti l’esito delle elezioni appare scontato. Detto questo, il Partito Democratico ha due problemi: il primo è che deve trovare il modo per convincere Biden a ritirarsi e per ora l’unica strada per farlo sembra essere quella di sfruttare le cordate imprenditoriali, espressione del potere, ritirando o sospendendo i finanziamenti alla campagna elettorale; il secondo è individuare l’eventuale sostituto di Biden, che secondo alcuni potrebbe essere Kamala Harris, mentre altri indicano Michelle Obama, ma che sono due nomi che, a mio avviso, non scaldano più di tanto il cuore dell’elettore americano medio”.
Intanto, si moltiplicano le voci di ingerenze russe sul voto americano. Lei cosa ne pensa?
“Onestamente non sono sorpreso, da sempre le grandi potenze cercano di fare pressioni affinché venga eletto un presidente che possa essere il più accondiscendente possibile. Tuttavia, ritengo che le elezioni, in qualsiasi Paese, non siano così determinanti per cambiare in toto la postura internazionale di uno Stato perché questa dipende da un numero enorme di fattori”.
La probabile vittoria di Trump, che non ha fatto mistero di volersi disimpegnare dalla guerra in Ucraina, rischia di complicare i piani di resistenza di Zelensky. Secondo lei, senza il supporto americano, l’Ucraina è destinata a soccombere?
“Se l’Ucraina restasse senza il supporto americano, certamente è destinata a soccombere e quindi a dover negoziare un accordo di pace a loro sfavorevole. Del resto, la situazione dal campo di battaglia ci dice che la Russia sta avendo la meglio in modo netto e quindi presto o tardi si dovrà fare i conti con quest’andazzo. Tuttavia, non sono così convinto che un’eventuale amministrazione Trump mollerà l’Ucraina. Recentemente, in un saggio apparso su Foreign Affairs, il quarto e ultimo consigliere alla sicurezza nazionale di Trump, Robert O’Brien, ha detto che, a suo avviso, il tycoon continuerà a sostenere Zelensky per spingere Putin a negoziare, rivelando, però, che concentrerà i suoi sforzi soprattutto sul contenimento della Cina e dell’Iran”.
Nel caso ipotetico che l’Unione Europea dovesse rimanere da sola a sostenere l’Ucraina, cosa dovrebbe fare?
“Guardi, l’Unione Europea è letteralmente divisa in due. Da un lato ci sono gli Stati orientali, con la Polonia in testa, che sono favorevoli alla prosecuzione sine die del conflitto così da contenere il più possibile le pretese imperialiste della Russia. Non a caso il prossimo rappresentante per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, è espressione di questa linea. Dall’altro lato ci sono gli Stati occidentali che, pur supportando l’Ucraina, ritengono prioritario aprire quanto prima negoziati per arrivare a una risoluzione del conflitto anche perché per ricostituire una nuova architettura di sicurezza in Europa è necessario instaurare un dialogo con Mosca. Il problema è che bisogna superare teatrini sul modello di quello andato in scena in Svizzera, dove ha partecipato l’Ucraina, ma non la Russia”.
Davanti a queste incognite e con il rischio di escalation che è sempre dietro l’angolo, non crede che sia giunto il momento di negoziare una pace?
“Assolutamente sì, è necessario porre le basi affinché si arrivi a una risoluzione del conflitto. Credo anche che per gli eventuali negoziati si debba partire dalla bozza di Istanbul, una sorta di compromesso su cui stavano dialogando gli apparati ucraini e russi, perché è un buon punto di partenza come dimostra il fatto che le due delegazioni avevano trovato accordi su diversi punti”.