Siamo quasi a un anno dalla scomparsa di Sara Pedri, la ginecologa trentunenne di Forlì di cui non si hanno più tracce. L’unica certezza sino ad oggi è che l’ex primario del reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento – Saverio Tateo – e della sua vice, Liliana Mereu, sono indagati per maltrattamenti e abusi di mezzi di correzione. E che le varie testimonianze raccolte – ultima quella dello scorso martedì 8 Febbraio – sembrano perfettamente sovrapponibili nella descrizione di un clima di terrore nel reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale trentino, corroborando il quadro accusatorio delineato dalla Procura.
Due persone ascoltate dalle due sostitute procuratrici che seguono il caso hanno descritto un clima di perpetua umiliazione pubblica, in taluni casi violenza fisica e un’indotta sfiducia che cresceva esponenzialmente con chiunque avesse a che fare, in un ruolo di subalternità gerarchica, con il primario e la sua vice. La scomparsa di Sara Pedri è stata affrontata solo marginalmente eppure, stando anche a quanto viene ricostruito grazie alle fonti a lei più prossime, il malessere profondo in cui viveva ormai da mesi sembrava affondare le radici proprio nell’ambiente professionale. Tutti ci auguriamo che Sara possa essere ritrovata, ma la sua storia e quanto dall’indagine suddetta sta emergendo, deve oggi più che mai indurci a una seria riflessione sul mondo del lavoro e quei taciti ricatti ai quali sottostiamo per paura di perdere il posto.
IL PREZZO DA (NON) PAGARE. Culturalmente, specie quando si è giovani e/o donne e l’accesso al mondo del lavoro sembra essere una chimera, si accetta quasi come un dato di fatto ineliminabile di dover essere sottoposti a un inferno lavorativo perché chi ha il potere, in fondo, può decidere dispoticamente del nostro destino e le armi che abbiamo per difenderci appaiono spuntate specie se da impugnare in un ambiente in cui, chi è nella nostra stessa posizione, preferisce restare nel silenzio dell’omertà.
Una delle ginecologhe che ha fatto da teste, racconta come ha dovuto abbandonare il lavoro quando – già in una condizione di vulnerabilità come la gravidanza – si è vista umiliare al punto tale da sentirsi male avvertendo così un pericolo per la sua stessa vita e per quella del bambino che aveva in grembo. Prima di arrivare a situazioni di così violento malessere, bisogna però educare se stessi a riconoscere il mobbing lavorativo e l’abuso di potere così da combatterli senza paura, facendo rete, liberandoci da insostenibili ricatti.
Con ciò non si intende che chi non denuncia tempestivamente sia colpevole o silente complice di un sistema malsano, semplicemente il lavoratore deve essere educato alla consapevolezza dei propri diritti e vivere come un dovere la difesa di questi. Se certamente lo Statuto dei lavoratori e le sentenze della Cassazione degli ultimi anni vanno in direzione di una piena tutela di chi è vessato in ambito professionale, va precisato come in Italia non esista una legge specifica anti-mobbing, che pertanto non è configurato come specifico reato penale a sé stante.
Per quanto riguarda l’Europa, esiste una risoluzione del Parlamento Ue sul mobbing nel lavoro (2001/2339) che rappresenta uno dei primi riferimenti normativi in materia. Ma ciò nonostante il nostro Stato non si è uniformato a tale risoluzione poiché a questa non ha fatto seguito una direttiva che imponga ai Paesi membri una legiferazione sul mobbing. Servirebbe perciò che il nostro Paese agisca a riguardo, mentre continuiamo a sperare di trovare Sara Pedri.