Sembra incredibile ma la trattativa tra parti delle istituzioni e Cosa Nostra c’è stata davvero, ma tale interlocuzione non costituisce reato. Questo il paradosso che emerge dal dispositivo, letto dopo tre giorni e mezzo di camera di consiglio, con cui è stata ribaltata la sentenza di primo grado (leggi l’articolo) assolvendo Marcello Dell’Utri, i carabinieri Giuseppe De Donno, Antonio Subranni e Mario Mori, ma confermando la condanna nei confronti del boss Leoluca Bagarella e del medico di Cosa Nostra, Antonino Cinà. In attesa delle motivazioni che verranno depositate entro 90 giorni, l’unica certezza è che l’interlocuzione tra parti delle istituzioni e uomini dei clan ci sono state davvero ma ciò non costituisce reato.
IL SIGNIFICATO TRA LE RIGHE. Che questo sia il punto fermo del procedimento lo si capisce proprio dalla formula con cui sono avvenute le assoluzioni. Per quanto riguarda i vertici del Ros, Mori, Subranni e De Donno, i giudici della Corte d’Assise d’Appello hanno decretato che l’accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, “non costituisce reato”. Discorso ben diverso per quanto riguarda il fedelissimo del Cavaliere nonché ex senatore di Forza Italia, nei cui confronti l’assoluzione è stata piena perché, come dichiarato dai giudici durante la lettura del provvedimento, “non ha commesso il fatto”.
Proprio per questo nei confronti dell’ex forzista i giudici hanno anche dichiarato cessata l’efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio che gli era stata applicata in passato. Un’udienza, celebrata all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, a cui hanno preso parte i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, i quali avevano chiesto la conferma delle condanne di tre anni e mezzo fa, i difensori degli imputati. Tra quest’ultimi Cinà ha voluto presenziare in videoconferenza dal carcere di Sassari, in cui è tutt’ora detenuto, mentre gli altri imputati hanno preferito non comparire in aula.
LE PENE INFLITTE. Chi non l’ha sfangata, sono i due mafiosi ancora imputati. Per il boss Leoluca Bagarella il reato contestato è stato derubricato in minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, nei confronti del primo governo di Silvio Berlusconi, e per effetto di ciò è stata ricalcolata la condanna arrivando a uno sconto di pena di un anno, passando dai 28 inflitti in primo grado ai 27 disposti ieri. Confermata completamente, invece, la condanna a 12 anni già inflitta nei confronti di Antonino Cinà, fedelissimo di Totò Riina nonché suo medico personale.
Un verdetto che ha lasciato di stucco la Procura generale di Palermo con il sostituto procuratore generale, Giuseppe Fici, che al termine della lettura della sentenza si è limitato a dire: “Aspettiamo le motivazioni, dopo leggeremo il dispositivo e solo a quel punto potremo esprimere una valutazione”. Una frase sibillina che potrebbe far pensare alla volontà, da parte dei magistrati, di valutare un eventuale ricorso in Cassazione.
Delusione anche da parte dell’associazione Libera che, con una nota, fa sapere: “In attesa di leggere le motivazioni, la sentenza del processo d’appello ci allontana dalla verità e dalla giustizia su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica”. Sempre secondo il comunicato stampa dell’importante associazione antimafia, “oggi, ancora di più, il nostro pensiero va ai tanti familiari delle vittime innocenti delle mafie che davanti a questa sentenza vedono acuire le loro ferite e il loro dolore”.