di Clemente Pistilli
Sbagliano la causa e il Ministero dello sviluppo economico vede sfumare la possibilità di recuperare oltre dieci milioni di euro. Con una sentenza della Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal dicastero retto da Flavio Zanonato, è stata scritta l’ennesima pagina buia sulla “Cit Compagnia Italiana Turismo spa”, ex colosso del settore turistico del Belpaese, trasformatosi nell’arco di quindici anni in un pozzo di debiti e, stando alle indagini condotte dagli inquirenti milanesi, di reati.
Antico blasone
La Cit, istituita nel 1927 per promuovere il turismo, con soci fondatori le Ferrovie dello Stato, il Banco di Sicilia, il Banco di Napoli e l’Enit, si impose nel tempo sul mercato nazionale ed estero. Un colosso che, iniziata l’era delle privatizzazioni, nel 1998 finì nelle mani dell’imprenditore Gianvittorio Gandolfi, di Varese. Vennero varati progetti faraonici, ma tutta l’operazione, secondo la Procura della Repubblica di Milano, non sarebbe stata altro che una montatura criminale, caratterizzata da “velleitarismo e connivenze tra mondo bancario e politico”, come ha sottolineato due mesi fa il pm Riccardo Targetti nel corso della sua requisitoria, conclusa con la richiesta di nove condanne, tra i 16 e i 5 anni di reclusione. Entrata in crisi, con un debito di oltre 600 milioni di euro, la Compagnia Italiana Turismo nel 2006 è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria, procedura prevista per le grandi imprese in stato d’insolvenza, che mira al recupero e al risanamento delle stesse, sotto il controllo del Ministero dello Sviluppo Economico.
Un altro periodo tormentato
Ma proprio il Ministero ora passato a Zanonato sembra essere stato protagonista dell’ennesimo scivolone nell’affaire Cit. Il dicastero aveva proposto opposizione allo stato passivo della società, per ottenere il riconoscimento del privilegio per un credito di 10.212.115 euro, cercando così di recuperare l’ingente somma. Il Tribunale di Milano, nel 2011, ha rigettato l’opposizione e il Ministero, tramite l’Avvocatura dello Stato, ha fatto ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha però ora dichiarato il ricorso inammissibile. Il motivo? In casi del genere è previsto l’appello e non l’impugnazione davanti agli ermellini. Addio ai dieci milioni e anche una condanna a pagare 15mila euro di spese processuali.