La presunta censura del cantante Tony Effe, chiamato e poi ricusato per il capodanno a Roma, è la notizia perfetta per confezionare una pagina che non si sporca troppo le mani. Pare di capire che tutti siano d’accordo sul fatto che i testi delle canzoni del rapper siano piuttosto ributtanti quando descrivono le donne. Poi ci sono quelli che fanno notare come sia difficile parlare di censura per uno che spopola sui social e che, nel giro di qualche ora, ha trovato, sempre a Roma, un palazzetto in cui esibirsi. C’è chi chiede di non affidare un ruolo pedagogico agli artisti e invece parla di vera e propria censura. Poi ci sono i colleghi artisti che ne prendono le difese e quelli che ne prendono le distanze, secondo una geografia più di case di produzione che di ideali.
C’è il capolavoro politico, questo sì, di un’amministrazione comunale che invita un cantante e poi ci ripensa. L’amministrazione romana è riuscita nell’arduo compito di fare apparire perfino il prossimo Sanremo a trazione sovranista come un luogo di libertà. C’è un fatto però di cui si parla troppo poco. Gli attestati di solidarietà e di vicinanza verso Tony Effe non si sono visti quando a essere stati censurati erano Ghali e Dargen.
I due si erano messi in testa di parlare di Gaza e di migranti. Sono stati travolti dalla bava sovranista che (ovviamente) li ha accusati di voler “fare politica” invece di fare i cantanti, come se non fossimo tutti animali politici in ogni nostra scelta, anche la più apparentemente insignificante. In quel caso, il mondo della musica italiana è stato colto da un curioso moto di timidezza. I due artisti hanno incassato il fango di una parte politica e il silenzio dei colleghi.