Primo gennaio 2014. Una data che a tanti, molto probabilmente, non dice nulla. Ad altri, però, dice tutto. Drammaticamente. Da quel giorno, infatti, per via di una legge approvata dal Parlamento italiano, si è deciso di porre un tetto ai mega-stipendi della macchina amministrativa italiana: nessuno, da quel giorno, può percepire più di quanto non prenda il Primo presidente della Corte di Cassazione. In soldoni: 240mila euro annui. Un taglietto se ci pensiamo, dato che il tetto precedente era fissato a 311mila euro. Eppure, nonostante il trattamento-soft, a tanti non è andato proprio giù vedersi tagliare il lauto stipendio.
L’ultimo caso vede protagonisti otto magistrati della Corte dei conti che, abituati a far di conto su enti e partecipate della pubblica amministrazione, questa volta hanno deciso di prender carta e penna e far ricorso al Tar del Lazio contro una decisione che trovavano, a quanto pare, ingiusta. Non è un caso che il ricorso sia stato presentato contro – udite udite – la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Economia, e la stessa Corte dei Conti. Ma di chi stiamo parlando? I ricorrenti godono già di “trattamento pensionistico in quanto ex consiglieri della Camera dei Deputati e del Senato”.
Parliamo di personalità di spicco della macchina statale come i due ex vicesegretari generale del Senato Giuseppe Troccoli e Paolo Santomauro, o come Italo Scotti, per anni a capo della direzione Studi di Palazzo Madama. Gli otto ricorrenti nel frattempo, però, sono stati nominati anche magistrati della Corte dei Conti, “godendo quindi sia del trattamento pensionistico che di quello retributivo afferente l’attività di magistrato”. Arriva, così, giugno 2014. Tragedia: il Segretariato Generale della Corte dei Conti comunica che, a partire dal quel momento, non solo si sarebbe astenuto dal “corrispondere gli importi relativi agli emolumenti mensili connessi al servizio prestato in qualità di magistrato”, ma le somme eccedenti per il periodo gennaio – giugno 2014 sarebbero state recuperate. La ratio di tale determina sta nel fatto che ai soggetti già titolari di trattamento pensionistico, non potrebbero essere erogati stipendi che, sommati alla stessa pensione, finiscono col superare il tetto dei 240mila euro. Gli otto togati non ci stanno e, come detto, fanno ricorso chiedendo “di accertare il loro diritto a percepire l’intero trattamento retributivo, oltre a quello pensionistico”. Non un centesimo di meno.
Ma la vicenda non finisce qui. Il Tar inizialmente sospende il giudizio e invia la questione alla Corte Costituzionale che si pronuncia nel 2017 “dichiarando non fondate tutte le questioni ad essa sottoposte”. Insomma, il ricorso non ha motivo di essere almeno per quanto previsto dalla nostra Carta costituzionale. La palla, a questo punto, è tornata in mano al Tar che il 3 ottobre ha deciso di sospendere un’altra volta il giudizio e di “sottoporre alla Corte di Giustizia della Unione Europea” la questione. Cos’è che non convince il Tar? Secondo i giudici amministrativi la riduzione dello stipendio non è poi così “riduzione” trattandosi di un taglio “consistente, estremamente variabile, che nella maggior parte dei casi si attesta su percentuali superiori al 30%”, ma che in alcuni casi arriva pure al 100%. E in questi casi non si può accettare – dicono – che ci siano persone che lavorino, di fatto, gratis. Fa niente per la super-pensione che già portano a casa.