Sempre più persone, tra collaboratori e testimoni di giustizia, assistite e protette dallo Stato, ma sempre meno soldi a disposizione per il programma di protezione. Questo è quello che emerge dalla relazione presentata in Parlamento dal ministro dell’Interno Marco Minniti “sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione per coloro che collaborano con la giustizia”, relativi al secondo semestre 2015 e al primo semestre 2016.
Occorre precisare subito per i non addetti ai lavori che c’è una differenza sostanziale tra testimoni e collaboratori: mentre i primi sono normali cittadini estranei ai fatti di mafia che hanno denunciato crimini alle autorità, i secondi sono invece i cosiddetti pentiti che hanno fatto parte di associazioni criminali e successivamente hanno deciso di collaborare. Curiosamente, però, la relazione è approdata in Parlamento proprio quando la Camera stava discutendo la riforma della normativa sui testimoni di giustizia, un testo uscito dalla commissione parlamentare antimafia e approvato all’unanimità il 9 marzo scorso da Montecitorio, che senza alcun dubbio costituisce una pietra miliare nel percorso di miglioramento delle politiche di contrasto alla criminalità organizzata.
Nella relazione sono riportate le parole del Gruppo di Lavoro costituitosi presso il Viminale per lo studio della riforma del sistema, il quale ha espresso “un giudizio complessivamente positivo sulla normativa vigente, che non si ritiene bisognevole di cambiamenti sostanziale nel suo impianto generale”; ma poco dopo si lancia in una serie di proposte modificative che riguardano soprattutto le forme di assistenza economica e sociale ai testimoni di giustizia, come ad esempio il sostegno psicologico per il quale si è speso nel 2015 più di un milioni di euro – un importo quasi decuplicato rispetto al 2014 – e il riconoscimento dello status di testimone di giustizia.
Soggetti border line – Rispetto a quest’ultimo punto la relazione evidenza che “il testimone di giustizia solo raramente si identifica nella figura tratteggiata dal dettato normativo” e “il rischio di qualificare come testimoni di giustizia soggetti border line con significative evidenze di intraneità al contesto criminale oggetto delle dichiarazioni rese, non può che comportare paradossali conseguenze sulla tenuta e sulla stessa credibilità del sistema di protezione”. In altre parole il Viminale ammette che questo sistema non funziona e che vi è il rischio, e probabilmente si sono verificati anche casi, di ammissione al programma di protezione di supposti testimoni che invece facevano parte di organizzazioni criminali.
I dati – Le statistiche sono molto chiare. Innanzitutto si conferma il trend crescente di persone che accedono al programma di protezione: se dal 2000 al 2006 c’è stata una graduale diminuzione, dagli iniziali circa 4000 tra collaboratori, testimoni e loro famigliari sino a quasi 2900, dal 2007 al 2016 sono aumentati gradualmente fino a quasi 5.200 individui. Ma curiosamente ad aumentare è solamente il numero dei pentiti (e loro famigliari) mentre rimane pressoché basso e invariato il numero dei testimoni, segno che la legislazione su questi individui effettivamente aveva bisogno di qualche ritocco per essere realmente efficace.
Non solo, analizzando i dati dell’ultimo anno si scopre che la maggior parte delle richieste di accesso alla protezione si concentra a Napoli e in Puglia e stranamente solo in minima parte dalle altre due Regioni a forte incidenza mafiosa, la Calabria e la Sicilia: un chiaro segnale dell’impermeabilità di Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Salta all’occhio anche la presenza di richieste dal centro e dal nord Italia: Roma, Brescia, Torino, Ancona, Bologna, sintomo anche nel Centro-Nord, dove la mafia da anni ha consolidato la propria presenza, si stanno facendo avanti pentiti e testimoni.
I costi – Ma quanto ci costa questo sistema? Si tratta di quasi 32 milioni di euro nel primo semestre 2016, in controtendenza rispetto alla costante crescita degli ultimi anni: 76 milioni nel 2013, quasi 78 milioni nel 2014 e oltre 85,5 milioni nel 2015. La quasi totalità di queste spese viene assorbita dagli affitti per le abitazioni di testimoni e collaboratori e per i loro contributi mensili. Una spesa sicuramente consistente ma al tempo stesso necessaria per tenere in piedi un sistema dall’insostituibile valore investigativo, avendo consentito in questi anni di aggredire e smantellare importantissime organizzazioni criminali che, altrimenti, sarebbero state difficilmente individuabili.
Il sistema sicuramente non è perfetto, e lo dice la relazione stessa: “l’emersione alla ribalta mediatica di taluni casi limite di protetti che rappresentano […] malcontento e disagio, se da un canto conferma […] la validità generale dell’operato […] invita dall’altro a riflettere sull’opportunità di una rimodulazione delle tante risorse” e “la qualità percepita dei servizi offerti è spesso bassa: ci si confronta frequentemente con situazioni di disagio che coinvolgono l’intero nucleo familiare e in misura crescente i minori”.
Non è difficile ritrovare casi di malcontento di collaboratori e testimoni tra le cronache giornalistiche, e addirittura situazioni in cui questi individui e le proprie famiglie non sarebbero stati adeguatamente protetti, tanto da ricevere minacce e intimidazioni dalle stesse persone che accusavano. Non mancano neppure frecciate alla stessa popolazione protetta, la quale, secondo la relazione si dovrebbe rendere “responsabile di un diverso e nuovo impegno e si senta titolare di diritti più che destinatario di favori, protagonista di un percorso di affrancamento dal giogo della criminalità”.