Ormai è cosa nota dopo l’annuncio dei giorni scorsi: Italia e Regno Unito lavoreranno assieme per lo sviluppo del caccia di VI generazione, il Tempest. Sarà un progetto su cui lavoreranno le principali industrie armate dei due Paesi, a cominciare dalla “nostra” Leonardo, tanto che l’Ad, Alessandro Profumo, ha prontamente fatto intendere come per l’Italia questo programma militare (oltreché industriale) possa rappresentare una grossa opportunità. Vedremo cosa accadrà, anche se – come ricostruito da La Notizia – il fatto che potremmo trovarci tra qualche anno a partecipare a più programmi aeronautici (e spendere miliardi per questi), anche in competizione tra loro, non fa ben sperare.
Il rischio, in altri termini, è che possa non tradursi in un affarone per l’Italia. Un po’ come capitato con gli F-35. Quel che pare è che, invece, possa esserlo per il Regno Unito alla luce anche e soprattutto della prossima, eventuale, Brexit. Come sottolinea la relazione dei magistrati contabili europei in merito alle spese comunitarie in campo armato, “l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non sarà, probabilmente, priva di conseguenze per la difesa dell’Ue”. E questo per una ragione piuttosto oggettiva: tradizionalmente, infatti, il Regno Unito occupa il primo posto in Europa per la spesa militare. Nel 2017 il suo bilancio della difesa rappresentava circa un quarto della spesa totale degli Stati membri dell’Ue in questo settore.
GOOD JOB. Questo vuol dire che uscire dall’Unione significherà che le spese preventivate in campo armato e per la difesa saranno spalmate su 27 e non più su 28 Stati. D’altro canto, però, non è detto che quegli stessi investimenti ricadano sui Paesi membri: “le aziende britanniche detengono una forte posizione nel mercato europeo della difesa”, specifica la Corte dei Conti Ue. Il rischio, in altre parole, è che l’Unione diventi sempre più dipendente da industrie extra-Ue come saranno a breve quelle inglesi. Ma non è la prima volta che il Regno Unito prende il bottino con uno sforzo minimo. Informa ancora la relazione della Corte Ue: “In termini operativi, il contributo del Regno Unito alle missioni […] è stato nel complesso limitato: ha rappresentato circa il 2,3% del contributo degli Stati membri in fatto di personale, e ha fornito mezzi come navi, aerei e rinforzi di truppe in standby”.
D’altra parte, però, “la perdita di facilitatori strategici nel settore aereo (rifornimento in volo e capacità di intelligence, sorveglianza e ricognizione) e di forze operative speciali costituisce un esempio dei settori di capacità che sarebbero gravemente colpiti dalla Brexit”. Di conseguenza, l’Ue a 27 Stati disporrà di risorse assai inferiori per sopperire alle carenze individuate nei settori delle capacità e delle ricerche militari. In entrambi gli ambiti, scrive non a caso la Corte dei Conti comunitaria, “le carenze saranno assai probabilmente aggravate dalla Brexit” che “comporterebbe una sostanziale riduzione delle odierne capacità complessive dell’Ue nonché una carenza di investimenti in ricerca e sviluppo”.
Anche in questo caso i numeri sono più chiarificatori di mille parole: senza il Regno Unito, l’Unione europea perderebbe il 30% di aerei militari, il 28% di droni e addirittura il 50% di portaerei. Il problema è che bisognerà rivolgersi ad aziende leader del settore, a cominciare dalla BAE Systems, la stessa che non a caso guida il programma militare dei Tempest insieme a Leonardo. Insomma, se da una parte si dice che i rapporti Italia-Inghilterra sono talmente forti da resistere anche allo spauracchio Brexit, è altrettanto vero che l’uscita dall’Europa per il Regno Unito potrebbe essere manna dal cielo più che un problema. Con i Paesi Ue “costretti” a mediare con Londra per restare competitivi.