Di Fausto Biloslavo per Il Giornale
Cinque milioni di dollari (circa 3,6 milioni di euro), dalle tasche del contribuente italiano, sono stati sborsati per la difesa dei marò. In stragrande maggioranza serviti a pagare le costose parcelle degli avvocati indiani che rappresentano i marò ed in minima parte come anticipo del baronetto inglese ingaggiato per intraprendere la via dell’arbitrato internazionale.
Soldi ben spesi se Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non fossero ancora trattenuti in India da due anni e mezzo senza processo. Un esborso assurdo tenendo conto dei risultati raggiunti fino ad ora, poco superiori allo zero. Non solo: Mukul Rohatgi, il principe del foro più costoso dell’India assoldato dall’Italia, il 28 maggio è stato nominato procuratore generale del nuovo governo di Narendra Modi, il politico nazionalista mangia marò. Oltre al danno milionario si è aggiunta la beffa.
L’unico successo degli avvocati indiani è stato quello di strappare i marò dalle grinfie del Kerala, dove avevano sbattuto Latorre e Girone in galera per tre mesi, facendoli trasferire a Delhi ai «domiciliari» presso l’ambasciata italiana. Però i legali a peso d’oro erano convinti che la Corte suprema avrebbe riconosciuto l’immunità funzionale dei nostri fucilieri di Marina chiudendo il caso. Invece ha solo stabilito la realtà dei fatti, ovvero che l’incidente in cui sono morti due pescatori indiani non è avvenuto nelle acque territoriali indiane ed il Kerala non aveva alcun diritto di indagare e processare i marò. Se i luminari del foro locali fossero stati pagati a risultato, anziché ad ore, come è avvenuto nello stile americano, avrebbero guadagnato un piatto di lenticchie.
«Al momento le spese per gli avvocati indiani ed i nuovi legali britannici si aggirano sui 5 milioni di dollari. Il costo è stato suddiviso fra il ministero della Difesa e quello dell’Interno, che ha un capitolo apposito per questi casi» dichiara al Giornale una fonte autorevole del governo. Il grosso dei 5 milioni di dollari è stato pagato dal governo Monti e Letta agli avvocati indiani. Prima lo studio Titus & Co di Nuova Delhi, che annunciava di aver schierato ben 9 legali sul caso dei marò. Il più noto alle cronache italiane è Harish Salve, che nel marzo 2013, quando sembrava che i fucilieri di Marina restassero in Italia dopo un permesso concesso dall’India, aveva annunciato urbi et orbi che lasciava l’incarico per protesta. Roma ha ingaggiato anche l’avvocato Mukul Rohatgi, collezionista di auto, uno dei dieci legali più pagati dell’India. Si è battuto a spada tratta, senza ottenere il rientro in patria dei marò che annunciava, in attesa del processo. Poi il nuovo premier indiano Modi, che ha usato come clava propagandistica il caso marò, lo ha nominato procuratore generale. Il 28 maggio, bontà sua, Rohatgi ha specificato in un’intervista che non rappresenterà il governo indiano «nel caso dei marines italiani a causa del conflitto» di interessi.
«È sempre stato un errore battere sulla giurisdizione indiana. Bisogna imboccare decisi la strada dell’arbitrato davanti ad un giudice internazionale – spiega a il Giornale, Angela Del Vecchio, esperta di diritto internazionale -. Abbiamo atteso due anni e mezzo e adesso che il nostro avvocato difensore è diventato procuratore generale a Delhi stanno valutando se ricominciare da zero. Basta, tagliamo questo nodo gordiano e passiamo con decisione all’arbitrato».
Una minima parte dei 5 milioni di dollari per spese legali corrisponde all’anticipo chiesto dallo studio legale di Sir Daniel Behtlehem, che ha schierato tre avvocati sul caso. Una fonte governativa spiega che «gli inglesi fanno parte di un team legale di 9 persone, cinque dei quali sono esperti italiani». Il governo Renzi ha chiamato all’appello Mauro Politi, uno dei massimi esperti nazionali di diritto internazionale, Attila Tanzi dell’università di Bologna, Ida Caracciolo che insegna Diritto del mare a Napoli, l’avvocato Paolo Busco impegnato all’ufficio legale della corte de L’Aya per l’arbitrato e Guglielmo Verdirame. «La strategia dell’internazionalizzazione prevede una procedura precisa a cominciare dallo scambio di vedute con il governo indiano. Se non si compiono questi passi non si arriva all’arbitrato» sottolinea con il Giornale una fonte governativa. Per ora New Delhi ha fatto spallucce e l’Italia, se vuole, può fare istanza i tempi brevi al tribunale internazionale nella speranza di tirare fuori i marò dalla trappola indiana.