Tajani cerca gloria a Valencia: tra la vicepresidenza del Ppe e il fantasma di Rotterdam alle spalle

A Valencia Tajani cerca una conferma che non cancellerà, comunque vada, la crisi profonda che attraversa Forza Italia

Tajani cerca gloria a Valencia: tra la vicepresidenza del Ppe e il fantasma di Rotterdam alle spalle

Il Congresso del Partito Popolare Europeo a Valencia si apre con il fragore dei blackout e le accuse per le alluvioni gestite male. A sfilare tra i corridoi, Antonio Tajani, ministro degli Esteri italiano, candidato alla riconferma come vicepresidente del PPE, figura che in Europa resiste per anzianità e relazioni, ma che in patria si eclissa tra le ombre della politica quotidiana.

L’egemonia del PPE oggi è un dato. Ursula von der Leyen alla Commissione, Roberta Metsola al Parlamento, tredici governi su ventisette sotto il suo marchio. Ma proprio mentre raccoglie successi, il Partito Popolare si rivela vulnerabile: stretto tra la tentazione delle alleanze con le destre radicali e il bisogno di mantenere una rispettabilità che traballa sotto i colpi della realtà. In questo equilibrio ipocrita, Tajani sembra trovarsi perfettamente a suo agio.

La fragile forza di Antonio Tajani

A Valencia, Tajani porta i gradi del veterano europeo: ex presidente del Parlamento, commissario di lungo corso, braccio diplomatico in un governo spesso guardato con sospetto a Bruxelles. Il curriculum è imponente, il peso politico reale molto meno. In Italia, Tajani riveste cariche importanti ma lascia tracce leggere: vicepremier invisibile, ministro degli esteri in sordina, garante europeista di un governo che sull’Europa marcia in direzione opposta.

Un equilibrismo che è il suo tratto distintivo. In Europa, Tajani recita il copione dell’uomo delle istituzioni, colui che si oppone agli estremismi e invoca una rivoluzione istituzionale che nessuno, realisticamente, vuole davvero.

La sua candidatura alla vicepresidenza si regge su una piattaforma costruita ad arte: competitività industriale come paravento per la deregulation e un progetto di riforma istituzionale dell’Unione che più che un programma è una bandiera per distinguersi. Una strategia che mira a mantenere visibilità a Bruxelles, ma anche a erodere, lentamente, il consenso di Giorgia Meloni tra gli ambienti moderati europei, senza mai aprire uno scontro diretto.

Forza Italia e il peso variabile in Europa

Forza Italia arriva a Valencia con numeri ancora dignitosi: quarta delegazione per grandezza, dietro solo a tedeschi, spagnoli e polacchi. Ma i numeri non raccontano tutto. L’influenza reale è quella di un partito in declino, il cui principale biglietto da visita rimane il passato, non il presente. Forza Italia rivendica il suo posto nella casa dei popolari, ma la casa guarda altrove.

Anche Tajani deve fare i conti con i fantasmi del congresso di Rotterdam del 2022, quando ottenne meno voti del previsto. La sua riconferma è considerata probabile, ma il sostegno non è compatto né entusiasta. Il PPE, in un momento di forza apparente, sembra poco disposto a offrire riconoscimenti solo per diritto acquisito. L’impressione, neppure troppo velata, è che Tajani sia sospinto più dalla mancanza di alternative immediate che da un reale entusiasmo.

Valencia è il teatro perfetto per la parabola di Tajani: una figura che vive del riflesso di un potere europeo che sa di passato, impegnato a rivendicare spazio mentre nella politica italiana conta sempre meno. Se sarà rieletto vicepresidente, Forza Italia potrà ancora esibire un vessillo europeo. Ma si tratterà, nella sostanza, di una vittoria difensiva, più utile a mascherare la decadenza che a invertire la rotta.

Se invece Tajani dovesse fallire, la caduta sarebbe rovinosa. Non tanto per l’uomo quanto per l’idea stessa di Forza Italia come forza europea credibile. Senza Tajani a Bruxelles, anche quell’ultimo filo che lega il partito alla grande famiglia popolare si assottiglierebbe, accelerando la via del declino.

Il congresso di Valencia, al di là delle celebrazioni di rito, mostra senza troppi orpelli ciò che il PPE fatica ad ammettere: dietro la vetrina della stabilità si cela una fragile alleanza di interessi divergenti. Tajani, maestro nel mimetizzarsi tra le pieghe di questa ambiguità, è forse il più fedele interprete di una stagione politica che sopravvive solo a condizione di non essere mai pienamente raccontata.