Non si smentiscono mai. Come sul Mes, sul Superbonus o sulle braccia tese e i saluti romani della commemorazione di Acca Larentia, Giorgia Meloni e i suoi continuano a scaricare su chi li ha preceduti – il bersaglio prediletto sono i Cinque Stelle, colpevoli di fare un’opposizione dura a questo governo sui temi di politica sociale, ambientale e internazionale – le responsabilità della loro inerzia e incapacità di affrontare i dossier. L’ultimo scaricabarile senza pudore cui stiamo assistendo riguarda il caso dell’ex Ilva.
Con il leader di Azione, ed ex ministro, Carlo Calenda che gli regge il gioco. Ieri l’informativa al Senato del ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, si è risolta in un lungo elenco di recriminazioni nei confronti di quanti lo hanno preceduto e neanche una parola sulle responsabilità dell’attuale governo, che in questi 14 mesi ha prodotto solo fuffa, al punto che mai la situazione del polo siderurgico era stata così drammatica come quella in cui versa oggi.
Sull’ex Ilva tanta fuffa
“Intendiamo – dice Urso – invertire la rotta cambiando equipaggio”. E assicura: “in futuro ci sarà sempre un partner privato industriale che guiderà questa azienda”. Intanto in serata, aprendo l’incontro con i sindacati di categoria a Palazzo Chigi, gli esponenti del governo hanno spiegato che si lavora per arrivare a un “divorzio consensuale” con Mittal, per evitare un lungo contenzioso legale. In particolare in queste ore sarebbero al lavoro i legali dei due soci, con l’obiettivo di arrivare a un accordo entro mercoledì. Sullo sfondo resta lo spettro dell’amministrazione straordinaria. Il che significherebbe la nomina di un commissario e il probabile avvio di una lunga battaglia legale con Mittal.
Per i sindacati è l’opzione più violenta e va evitata. Metterebbe in ginocchio le aziende creditrici dell’indotto e rafforzerebbe lo spauracchio della cassa integrazione, già ampiamente attivata. Le priorità che Fim, Fiom e Uilm portano sul tavolo dell’esecutivo sono la salvaguardia dei livelli occupazionali, la continuità dell’attività lavorativa e degli impianti. Ma su questo, a parte generiche rassicurazioni da parte della ministra del Lavoro, nessuna certezza. Come nessun piano svela il governo per il futuro della siderurgia. Urso, elencando quello che ha fatto l’esecutivo, dice che “lo sforzo che le istituzioni (il Governo e il Parlamento) hanno condotto in questi mesi è stato orientato a creare le condizioni per un maggiore impegno degli azionisti, delineando anche a più riprese quali sono le priorità per l’ex Ilva dal punto di vista della produzione e dell’occupazione. Abbiamo a più riprese chiarito al socio privato come sia necessario un impegno congiunto sui fabbisogni immediati, sulla ricapitalizzazione, sull’acquisto degli asset e sugli investimenti produttivi e ambientali”.
Bene, ma evidentemente questi sforzi non sono bastati se l’impianto è in una situazione di grave crisi. Per quanto riguarda il 2023 la produzione si attesterà a meno di 3 milioni di tonnellate, come nel 2022, ben sotto l’obiettivo minimo che nell’anno avrebbe dovuto essere di 4 milioni. E soprattutto il socio privato ha detto con estrema chiarezza, nell’incontro di lunedì scorso a Palazzo Chigi, che non ha intenzione di immettere alcuna risorsa, persino nell’ipotesi in cui la sua quota dovesse scendere al 34 per cento.
Il solito copione
Le responsabilità di tutto questo? Facile: del governo Conte. Colpevole di aver tolto lo scudo penale. “Ricordo che in quella circostanza numerose voci si levarono dall’opposizione di allora anche in quest’Aula del Senato e personalmente fui una di quelle. Mi alzai in quest’Aula per affermare – dice Urso – a nome del partito cui appartengo, che la rimozione dello scudo penale in un contesto come quello di Taranto avrebbe giustificato il disimpegno della multinazionale indiana”.
Ma né Calenda né Urso ricordano che il ripristino dello scudo penale operato da questo governo non ha a oggi convinto Mittal ad assumersi le sue responsabilità. Calenda poi ha poco da recriminare dal momento che fu nel 2017, quando era lui ministro dello Sviluppo economico, che la multinazionale indiana vinse la gara pubblica per assumere in affitto la gestione delle acciaierie, pur in presenza di un’altra cordata pubblico-privata cui partecipava Cassa depositi e prestiti.
Mentre nel luglio 2018 il governo Conte I chiese all’Autorità nazionale anticorruzione di indagare sulla regolarità della procedura di gara. Urso punta il dito, poi, sui patti parasociali siglati nel marzo 2020 sotto il governo Conte II, da cui nascerà Acciaierie d’Italia, con l’ingresso di Invitalia al 38 per cento, che – a suo dire – sarebbero stati fortemente sbilanciati a favore del soggetto privato. Su questi temi, ha replicato il leader del M5S, Giuseppe Conte, “parlano in tanti, a cominciare da Calenda. Ma al suo posto starei attento a parlare. Prima di chiedere conto agli altri, dovrebbe spiegare lui come ha impostato la gara d’appalto”.
Quando da ministro ha preferito la cordata con solo Mittal. “Con il Governo Conte 2 – ha spiegato l’ex premier – prendo la questione in mano, ma abbiamo capito che lasciando tutto in mano a Mittal difficilmente avremmo tutelato il polo produttivo e la salute dei cittadini. E mi convinco, con i ministri che mi affiancavano, che c’era la possibilità di aggiungere il partner pubblico. Lo scudo penale era uno specchietto per le allodole, che Mittal ha superato”. Ora, afferma, “ai liberisti della domenica, a Calenda il turboliberista chiedo: hai mai visto in giro per il mondo un’azienda che opera con l’immunità?”. E al governo attuale chiede: “Cos’ha fatto?”. La risposta è sotto gli occhi di tutti: niente.