Dalla Quota 100 (e tutte le sue diverse varianti) all’Ape sociale: il richiamo in tema di pensioni dell’Ocse all’Italia non lascia spazio a dubbi. I meccanismi per l’uscita anticipata dal lavoro vengono criticati dall’organizzazione nel rapporto appena pubblicato. Queste situazioni, secondo l’Ocse, dovrebbero essere gestite non tramite il sistema pensionistico e hanno inoltre il problema di considerate categorie troppo ampie.
Secondo l’ocre, l’Italia assicura accessi anticipati “spesso senza penalizzazioni”, come nel caso del sistema delle quote, prorogato anche nel 2023 con la Quota 103. Un meccanismo che si sarebbe dovuto chiudere più volte, ma che è sempre stato prorogato, anche se con condizioni differenti e meno vantaggiosi.
Le critiche dell’Ocse alle pensioni anticipate
I rilievi dell’organizzazione in tema di pensioni anticipate riguarda anche altre forme, come l’Opzione donna. Per l’Ocse, tutte queste modalità di uscita anticipata, dalle quote all’Opzione donna, “fanno sì che ci siano dei livelli di occupazione tra gli over 60 anni molto bassi. E questa sarà una sfida crescente mentre la popolazione in età lavorativa è prevista calare di più di un terzo per il 2060”.
Inoltre, per quanto riguarda il sistema delle quote, “garantire benefici relativamente elevati a età relativamente basse contribuisce alla seconda maggiore spesa pubblica sulle pensioni tra i paesi dell’Ocse”, pari al 16,3% del Pil nel 2021. A fronte di ricavi da contributi pensionistici, sebbene molto elevati, pari solo all’11% del Pil.
L’organizzazione richiama anche il concetto di lavori usuranti, una categoria ampliata rispetto a quella iniziale dei lavori ritenuti a rischio: il punto, per l’Ocse, è che queste situazioni andrebbero affrontare al di fuori dell’ambito pensionistico, tramite normative di altro genere. Invece la categoria è stata ampliata con la lista dei lavori gravosi, a giudizio dell’organizzazione in maniera eccessivamente flessibile, facendo rientrare troppe categorie. Così come fatto anche con l’Ape sociale.
Il richiamo sulla rivalutazione degli assegni
L’Ocre sottolinea anche l’importanza dell’indicizzazione delle pensioni di fronte all’alta inflazione degli ultimi due anni, richiamando “l’applicazione coerente delle regole di indicizzazione”. Cosa non fatta dal governo Meloni che ha ridotto la rivalutazione per tutti gli assegni superiori a quattro volte il minimo. Anche se non è sbagliato pensare che i pensionati ad alto reddito possano condividere “parte del carico” dell’inflazione “con la popolazione in età lavorativa in termini di ridotti adeguamenti dei benefici”.
La spesa per le pensioni
In Italia nel 2025 la spesa per le pensioni raggiungerà il 16,2% del Pil, la percentuale più alta tra i Paesi Ocse, seguita dalla Francia al 15,4%. La media Ocse è molto più bassa, al 9,3%, mentre per l’Ue si fermerà all’8,5%. La spesa in Italia per la previdenza continuerà a salire fino al 17,9% del 2035 per poi iniziare a scendere.
L’aliquota media di contribuzione effettiva per le pensioni nei Paesi Ocse è invece pari al 18,2% dei livelli salariali medi nel 2022, ma in Italia la quota è molto più alta (più di chiunque altro), al 33%. I Paesi con tassi di contribuzione più alti spesso lo hanno fatto per garantire “prestazioni pensionistiche superiori alla media (come nel caso di Francia e Italia)”.
Inoltre, viene sottolineato che in Italia il reddito medio delle persone con più di 65 anni è leggermente più elevato di quello della popolazione totale ed è aumentato molto di più negli ultimi due decenni: nell’Ocse, invece, in media è del 12% più basso. Infine, un riferimento anche alle pensioni dei giovani: chi inizia a lavorare ora lo dovrà fare fino a 71 anni, l’età più alta tra i Paesi Ocse dopo la Danimarca.