Senza scomodare il grande Aristotele, intuiamo l’enorme differenza che corre tra la definizione di ciò che è “in atto” e di ciò che è “in potenza”. Nel primo caso abbiamo: ciò che è e non potrebbe non essere, nel secondo: ciò che non è e potrebbe essere. “Occupabile”, key word della norma transitoria nella Legge di Bilancio per la rimodulazione del Reddito di cittadinanza per il 2023, ci porta nella dimensione della mera potenzialità che, in questo caso, è quella di trovare un lavoro.
Una beffa per i percettori del Reddito di cittadinanza. Il lavoro è potenziale, ma fare la fame è certo
Non una cosa di poco conto perché chi non ha e probabilmente continuerà a non avere un lavoro, a un certo punto – per l’esattezza, dopo 7 mesi del prossimo anno – si troverà anche senza quel sussidio che gli ha garantito di non annegare nelle profonde acque della povertà.
Superata l’analisi ontologica del termine e cercando di capire le peculiarità che definiscono coloro che nell’accezione meloniana sono ritenuti “occupabili” emerge immediatamente il pregiudizio che vi è sotteso: “i percettori del Reddito di cittadinanza sono dei fannulloni che non hanno voglia alcuna di lavorare, li staneremo tutti!”.
Certo, le truffe in questi anni non sono mancate e il lavoro delle Fiamme gialle ha consentito di far emergere numerosi casi di illegalità – segno che i controlli sul Reddito di cittadinanza funzionano. O perlomeno funzionano così come ci piacerebbe funzionassero quelli sull’evasione fiscale, non determinati certamente dalla negligenza della Guardia di Finanza ma da norme sempre più facilmente aggirabili. Un classico a cui non si sottrae nemmeno la Legge di Bilancio per il prossimo anno.
Veniamo però all’indentikit dell’occupabile, immaginando un trentenne con figli che sta a casa e percepisce il Reddito di cittadinanza. Chi più di una tale persona potrebbe ambire ad uscire dall’indigenza inserendosi o reinserendosi nel mercato del lavoro? Eppure, insieme ai nuclei familiari con disabili e over-sessanta a carico, il giovane genitore non rientra nella categoria che scaduti i sette mesi potrebbe avere un lavoro.
Nel delirio governativo il profilo del cinquantanovenne che risiede al Sud, che vive in solitudine e che ha la quinta elementare ha maggiori probabilità di trovare lavoro in un tempo tanto ridotto. Pare infatti che gli occupabili siano prevalentemente distribuiti nel Mezzogiorno, che abbiano un’età compresa nel range anagrafico che va dai 45 ai 59 anni e che non abbiamo un titolo di istruzione che vada oltre le scuole dell’obbligo. Questo non vuol dire che debbano essere destinatari a vita dell’assistenzialismo statale, ma non ci si può nemmeno cullare nella velleità che siano facilmente ricollocabili seppur con tutti i corsi di formazione lampo a loro opportunamente forniti.
I paesi in cui le politiche attive per il lavoro funzionano, come nel caso della Danimarca, vedono la formazione dei cittadini inoccupati spalmata su periodi di ampio respiro, così da mettere le imprese nelle condizioni di assumere personale che sia realmente qualificato, o che non abbia lacune significative su discipline “di base” come la lingua parlata, o la matematica.
Fino all’insediamento del nuovo governo, quando eravamo in linea con il modello europeo, era ritenuto di avere una probabilità superiore di trovare lavoro chi un’occupazione non l’aveva da meno di due anni e garantiva dunque competenze di base alle quali si sommavano quelle specifiche in una profilazione dell’occupabile, fondata sulla sua unicità e non di certo sul nucleo familiare. La persona si definisce solo rispetto alla sua rete familiare di rapporti e scompare dall’orbita governativa quando è sola, qualunque siano le sue condizioni di vita e caratteristiche individuali.
Ora è noto che le coperture economiche sono certamente ridotte e la Meloni si è prontamente impratichita con l’esercizio dell’austerità di matrice draghiana, quella che tanto contestava quando occupava i banchi dell’opposizione, ma la premier non può operare tagli che incidono sensibilmente su una fetta di cittadini che non saprà di cosa vivere.
La previsione per il 2024 della totale cancellazione della misura non è accompagnata da alcuna visione strategica sul contrasto all’indigenza, dolente piaga destinata ad allargarsi e che vedrà le piazze mobilitarsi nel giro di poco. Quelle piazze che la Meloni ha creduto di fare proprie con la retorica populista, ma che ha già perso nel passaggio “dalla potenza” “all’atto”.