La settimana scorsa, nel silenzio dei media mainstream, la propaganda del governo ha subito un doppio, durissimo colpo. Il XXIII Rapporto annuale dell’Inps, presentato martedì 24 settembre a Montecitorio alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella, ha fatto letteralmente a pezzi la narrazione sul “cambio di passo sui salari” che, a detta di FdI, Lega e Forza Italia, sarebbe in atto da quando hanno vinto le elezioni.
“Al netto di tutti i possibili distinguo – scrive l’Istituto di previdenza – il dato essenziale è quello di un incremento della retribuzione media tra il 2019 e il 2023 pari al 6,8%. Si tratta di una variazione nominale delle retribuzioni decisamente inferiore a quella dell’inflazione. Infatti, tutti e tre gli indici Istat dei prezzi forniscono un’indicazione convergente sul fatto che la variazione media dei prezzi al consumo tra il 2019 e il 2023 è collocabile attorno al 15-17%”.
Non solo: “Se si considerano solo i beni alimentari, che, come noto, incidono particolarmente sul paniere di spesa dei redditi più bassi, la variazione sale al 25%”. Un vero e proprio salasso. Finanche quando tale delta, quantificabile per via Ciro il Grande “in una decina di punti percentuali”, ha iniziato a ridursi, il merito non è attribuibile al “carrello tricolore” del governo bensì alle parti sociali. Chiarisce infatti l’Inps: “Solo a partire dalla seconda metà del 2023 le retribuzioni contrattuali, con gli aumenti previsti nei Ccnl rinnovati, hanno iniziato a recuperare sull’inflazione”. Game, set, match.
L’altra doccia gelata è arrivata da OpenEconomics. In uno studio sui 21,1 miliardi di euro di spese dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del 2023, la società ha calcolato 49,6 miliardi di impatto sul Pil, 15,1 miliardi di entrate fiscali e – udite udite – oltre 700mila nuovi posti di lavoro a tempo pieno. Siccome lo scorso anno la differenza tra attivazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro è stata pari a 848mila unità, significa che l’82,5% degli occupati è frutto di quel Pnrr finanziato grazie alle risorse di “contiana” memoria. Proprio così. Insomma: una débâcle per tutta la linea comunicativa del governo.
Del resto, nel bailamme di stime sugli effetti benefici di tali fondi, nell’autunno scorso il centro studi Confindustria ha stimato che grazie ad essi “il Pil italiano nel 2026 sarà del 2,8% più elevato rispetto a uno scenario in assenza del Piano, per via di incrementi sia degli investimenti sia dei consumi”. Sono lontani i tempi in cui la destra criticava il Pnrr. Come si cambia per non morire.