Le modifiche del Governo al Reddito di cittadinanza sembrano rispondere più a una narrazione più o meno fantasiosa e ideologica, e pesantemente negativa, sui beneficiari del sussidio, considerati come “pigri nullafacenti”, che a una analisi dei dati empirici. Laddove il vero problema dell’avvio al lavoro è l’assenza di politiche attive.
La denuncia arriva da Chiara Saraceno (nella foto), presidente del Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza – nato a marzo scorso al ministero del Lavoro e previsto dalla legge istitutiva del Reddito – in un intervento pubblicato su lavoce.info. Le dieci proposte elaborate dal Comitato per migliorare la misura bandiera dei Cinque Stelle sono state rese pubbliche il 9 novembre ma erano già state anticipate al ministro del Lavoro, Andrea Orlando, e portate al tavolo in cui veniva definita la legge di Bilancio.
PAROLE AL VENTO. Tuttavia, riconosce con amarezza la Saraceno, poco o nulla di quanto proposto dal Comitato ha trovato accoglimento. In particolare, la narrazione per cui i beneficiari rifiuterebbero le offerte di lavoro perché il Reddito di cittadinanza dà loro abbastanza di che vivere, non trova riscontro empirico non solo nelle somme effettivamente percepite – 577 euro in media per famiglia, non per individuo, al mese – ma neanche in dati attendibili. Manca infatti una base dati nazionale che documenti le offerte effettivamente fatte ai beneficiari “occupabili” (un terzo circa di tutti i beneficiari) e i rifiuti da parte di questi ultimi.
Non è ancora stata risolta la questione di come mettere in comunicazione e condivisione centri per l’impiego che dipendono dalle Regioni. Quello che sappiamo – spiega la studiosa – è che meno di un terzo dei teoricamente “occupabili” è stato preso in carico da un Cpi. Il che non significa che abbia ricevuto una proposta di lavoro o di formazione, ma che il suo caso ha cominciato a essere esaminato.
INCONGRUITA’. Quindi la stretta inserita in Finanziaria, in base alla quale le offerte rifiutabili senza decadere dal beneficio non sono più tre, ma due, ha valore puramente simbolico, che rafforza l’idea dei beneficiari come pigri nullafacenti, evitando di mettere a fuoco la carenza di politiche attive e la mancanza di domanda di lavoro di qualità adeguata alle basse qualifiche della stragrande maggioranza dei beneficiari. Analogo significato ha l’aver ridefinito come congrua una seconda offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale.
Come se un imprenditore veneto, argomenta la sociologa, andasse a cercare possibili lavoratori tra i beneficiari campani o siciliani e questi potessero permettersi i costi di spostamento, oltre che organizzativi, stanti i bassi salari cui possono aspirare con le loro qualifiche. Se l’attivazione verso il lavoro non sta funzionando, quindi, non è “colpa dei beneficiari”, ma della scarsità di politiche attive, unita alla scarsità di una domanda di lavoro adeguata. E ancora: se i patti per l’inclusione stentano a partire, così come i Puc (progetti di utilità collettiva), non è colpa della resistenza dei beneficiari, ma della difficoltà in cui si trovano molti servizi sociali a far fronte a questo nuovo compito e alla complessità della governance dei Puc.