È stata la più grave perdita di vite umane per l’esercito israeliano dall’inizio della guerra con la Palestina. Ventuno soldati israeliani sono rimasti uccisi in un’esplosione che lunedì ha causato il crollo di due edifici nel campo profughi di Maghazi, nel centro della Striscia di Gaza. Secondo il portavoce delle forze di difesa israeliane Daniel Hagari i militari stavano operando in un’area a circa seicento metri dal confine per distruggere strutture e siti di Hamas, azioni che rientrano negli sforzi dell’esercito per stabilire una zona cuscinetto per consentire ai residenti delle comunità di confine israeliane di tornare alle loro case.
Crescono le proteste dei familiari degli ostaggi. Che chiedono un passo indietro del governo Netanyahu
“Per quanto ne sappiamo intorno alle 16 di lunedì i terroristi hanno lanciato un razzo Rpg contro un carro armato che proteggeva le forze e, contemporaneamente, si è verificata un’esplosione in due edifici a due piani. Gli edifici sono crollati a causa di questa esplosione, mentre la maggior parte delle forze erano dentro e vicino a essi”, ha detto Hagari. Una tragedia. Che ha chiari risvolti anche politici. Perché se in un primo momento le parole quasi fataliste del governo di Benjamin Netanyahu potevano convincere, ora non bastano più. “Questa è una guerra che stabilirà il futuro di Israele nei decenni a venire. La morte di quei combattenti deve spronarci a raggiungerne gli obiettivi”, ha detto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, ma le sue parole sono cadute nel vuoto perché ad oggi cominciano a sepreggiare ampi dubbi su questa guerra anche tra i membri dell’esercito.
Una situazione che desta non pochi problemi considerando i già ampi dubbi mossi da buona parte della comunità internazionale e, soprattutto, da parte della cittadinanza israeliana. Delusa soprattutto dalle scelte di Netanyahu sul fronte degli ostaggi. Non è un caso che solo pochi giorni fa abbiamo assistito all’irruzione dei famigliari degli ostaggi alla Knesset, culmine di un fine settimana di proteste oceaniche a Tel Aviv. La ragione è piuttosto chiara: i continui bombardamenti a Gaza evidentemente non aiutano le trattative per il rilascio degli sotaggi. I massicci bombardamenti hanno già causato oltre 25mila morti stimati (due terzi civili) senza ovviamente creare i presupposti perché gli ostaggi tornino in libertà.
Come era evidente dall’inizio è assai improbabile riscattare i rapiti se contemporaneamente continua la guerra con i raid aerei e l’occupazione della Striscia. Agli scambi di prigionieri dell’inizio, possibili grazie alla concessione di brevi tregue, non sono più seguiti accordi analoghi. Ed è un problema non da poco se si considera che siamo arrivati ormai al centodecimo giorno di guera, e di collaterale prigionia. Ed ecco le proteste clamorose come l’occupazione della Knesset e le tende montate davanti alla casa di Netanyahu, un presidio fisso fino a quando non ci sarà una soluzione. Che stenta però a vedersi all’orizzonte.
Buona parte della comunità internazionale è sempre meno convinta delle scelte di Bibi sul piano politico e militare
E a tutto questo si aggiunge, come detto, la posizione di buona parte della comunità internazionale, sempre meno convinta delle scelte di Bibi sul piano politico e militare. È evidente come non pochi attacchi siano stati diretti contro Gaza e non specificatamente contro i terroristi di Hamas. I civili palestinesi sono diventati bersagli per l’esercito israeliano. E questo ha creato i presupposti anche per perdere credibilità sul piano interno. Al momento il governo si è chiuso in una torre di babele, ma non è detto che presto Bibi debba quantomeno pensare a fare un passo di lato. E salvare la faccia, considerando che già ad oggi rischia di restare isolato e senza l’appoggio del suo esercito.