Per parlare di riforma dell’Irpef è ancora presto e il Def varato dal Consiglio dei ministri, di fatto vuoto, non aiuta di certo a capire che intenzioni ha il governo per la prossima manovra. Anzi, soprattutto non aiuta a capire se ci sono i soldi per gli interventi – a partire da quelli sugli stipendi – che l’esecutivo vorrebbe mettere in campo.
Per il momento il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non si è sbilanciato e il quadro sarà più chiaro solamente a giugno, dopo la definizione del percorso da seguire per la riduzione del debito con l’Ue. Per ora il ministro ha assicurato soltanto la conferma del taglio del cuneo fiscale come priorità assoluta per la prossima manovra.
Ma il vero obiettivo è un altro, anche se oggi sembra davvero lontano considerando le esigue risorse a disposizione. Tanto più di fronte a una crescita asfittica, che secondo ogni previsione sarà molto inferiore all’1% indicato dal governo nel Def. Tutto ciò da affiancare al percorso di rientro del debito su cui anche il Fondo monetario internazionale ha di recente lanciato l’allarme.
La riforma fiscale e la revisione dei crediti
L’obiettivo del governo resta la prosecuzione della riforma fiscale, il cui autore è il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo. Da una parte c’è l’intenzione di intervenire sull’Irpef per i redditi superiori ai 50mila euro, dall’altra si pensa di intervenire sui crediti d’imposta, con una revisione e rimodulazione della spesa che era già stata indicata nella scorsa Nadef.
In particolare il governo vuole, da tempo, intervenire sulle tax expenditures: ha più volte annunciato di voler riordinare questo sistema. Il primo intervento fiscale con la riforma dell’Irpef, però, come ha certificato l’Ufficio parlamentare di bilancio, ha permesso di recuperare soltanto 220 milioni. Un risparmio contenuto derivante dalla riduzione di 260 euro delle detrazioni per i redditi sopra i 50mila euro. Peraltro di fronte a crediti d’imposta in costante aumento: nel 2024 sono diventati 625, per una perdita di gettito che ha raggiunto i 105 miliardi, raddoppiando in soli sei anni.
Stipendi più alti, ma solo per i più ricchi
C’è poi il capitolo stipendi: Leo ha già detto che vuole aiutare quello che definisce ceto medio. Che poi tanto medio non è, se consideriamo quali sono gli stipendi medi italiani. Per il viceministro si deve intervenire su chi guadagna più di 50mila euro, facendo pagare loro meno tasse.
L’intervento potrebbe quindi riguardare l’Irpef, portando lo scaglione con aliquota al 35% fino ai 55mila euro (oggi si ferma a 50mila, salendo poi al 43%). Anche se va ricordato che chi guadagna, per esempio, 52mila euro l’anno paga il 43% solo per la cifra eccedente i 50mila euro, ovvero su 2mila euro e non su tutto il reddito. Insomma, sarebbe un intervento minimo. Tanto che si valutano anche altre ipotesi.
Alcune le ha valutate il Corriere con una simulazione effettuata con la Fondazione nazionale commercialisti. Una opzione è quella di ridurre l’aliquota del secondo scaglione (tra 28mila e 50mila euro), portandola dal 35% al 34% per circa 10 milioni di lavoratori. Vorrebbe dire portare un massimo di 220 euro in più di stipendio l’anno per chi guadagna dai 50mila euro in su.
L’altra ipotesi è quella di una riduzione della terza aliquota dal 43% al 42% per i 2,5 milioni di contribuenti che dichiarano più di 50mila euro. Per un vantaggio in busta paga fino a 500 euro per chi ha 100mila euro di reddito e che salirebbe ancora con cifre più alte, nel caso in cui non venga imposto un tetto. Insomma, l’aiuto ai redditi alti sarebbe molto maggiore rispetto a quelli più bassi. E tutto ciò senza affrontare il problema creato dal taglio del cuneo fiscale, ovvero lo scalone che penalizza (e non poco) chi guadagna poco più di 35mila euro l’anno, con stipendi netti più bassi di chi guadagna, per esempio, 33 o 34mila euro.