Il colloquio davanti al caffé tra un Aldo Fabrizi imperturbabile e un Totò incatenato e sfacciato, che prendeva tempo per trovare il modo di scappare dalle grinfie dell’agente Bottoni, è una di quelle scene indimenticabili. Che anche a pensarci oggi fa ridere e lascia quel senso di malinconia per una commedia troppo lontana da oggi. E questo non solo perché in Guardie e ladri campeggiavano due mostri sacri del panorama attoriale del tempo (e non solo), ma anche perché dietro c’era la saggia regia di Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina, che tanto ha regalato alla storia del cinema nostrano. Perché accanto a Guardie e Ladri non si può non citare Un Americano a Roma (come si potrebbe mai dimenticare il “Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno…!” di Alberto Sordi) o Febbre da Cavallo con le mandrakate di Gigi Proietti. Capolavori ancora unici che, da mercoledì 18 gennaio, saranno in mostra a Roma, alla Casa del Cinema di Villa Borghese. In occasione del centenario della nascita dello sceneggiatore e regista, ma anche disegnatore e scrittore, apre una grande mostra monografica, “Steno, l’arte di far ridere – C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora”, a cura di Marco Dionisi e Nevio De Pascalis, patrocinata dalla Regione Lazio, prodotta da Show Eventi.
Genio e precursore – Una mostra ricca, che narra di un modo di far ridere puro, sano, disincantato. Grazie al materiale di famiglia – in accordo con i figli Enrico e Carlo Vanzina – e con la collaborazione degli archivi Istituto Luce, Rai Teche e Cinecittà, si ricostruisce la storia professionale e privata del regista. Dall’infanzia fino all’ultima opera cinematografica del 1988, si ripercorre la vita di Steno attraverso fotografie, cimeli, testimonianze, carteggi e materiali audiovisivi inediti. Con chicche esclusive che non possono non incantare, come il “Diario futile”, un album di ritagli, foto, vignette, appunti, collage dissacranti, realizzato dal regista, tra il 1941 e il 1943, prendendo spunto dalla guerra e dal regime fascista. Passaggi, questi, inestimabili. E che non possono essere messi in secondo piano. Perché, come spesso accade, per capire la levatura artistica di un regista, il suo modo di vedere dalla cinepresa, è essenziale comprendere il suo modo di vedere il mondo, tourt-court. Il suo modo di ragionare, il suo modo di ridere e far ridere. Perché Steno non è stato solo un grande artigiano del cinema. Ha fatto parte di un’epoca in cui gli intellettuali vivevano a stretto contatto con la realtà e formavano una comunità compatta. Col coraggio e con la risata, Steno aveva sfidato il Mussolini imitandolo alla radio e, dopo aver riparato a Napoli, per sbarcare il lunario aveva messo su un business con il suo amico Dino de Laurentiis, vendendo ai turisti l’acqua della Grotta Azzurra di Capri sigillata dentro bottigliette decorate dallo stesso Steno.
Ecco, questo era Stefano Vanzina. Un genio. Un precursore. Immortale. Come la commedia all’italiana, di cui Steno, insieme all’amico e collega Mario Monicelli, è padre spirituale. Perché se i maccheroni di Sordi, le manette di Totò e Fabrizi o Proietti e Montesano alla sbarra per le loro mandrakate appartengono di diritto alla nostra cultura, è grazie a Steno.
Tw: @CarmineGazzanni