Che l’intesa fra i 27 leader europei in queste ore impegnati a Bruxelles nella difficile negoziazione sul piano Next Generation Eu, in particolare sul Recovery Fund e il bilancio pluriennale 2021/27 a cui esso è ancorato, fosse ardua da raggiungere in 48 ore, era cosa nota. Non a caso ha messo le mani avanti la cancelleria Angela Merkel – che pure è una strenua sostenitrice del fatto che gli strumenti per contrastare la crisi post pandemica vadano licenziati il prima possibile -, arrivando ieri al vertice Ue. “Le differenze tra i leader sono ancora molto grandi e non possiamo prevedere se riusciremo a raggiungere un risultato. Mi aspetto trattative molto, molto difficili”, ha ammesso con il consueto realismo che la contraddistingue.
In ogni modo, ha continuato, “la Germania (titolare del semestre di presidenza Ue, ndr) lavorerà insieme alla Francia per aiutare il presidente del Consiglio europeo Charles Michel”. La cui proposta, poggia su quella della Commissione guidata da Ursula von der Leyen a sua volta ispirata, appunto, all’intesa franco tedesca, fortemente auspicata anche dall’Italia. Che, dei 750 miliardi messi sul tavolo, potrebbe beneficiarne di 91 sotto forma di prestiti e ben 82 di sussidi. Ed è proprio questo uno dei nodi più complicati da sciogliere: il volume del Fondo e l’equilibrio tra prestiti e sovvenzioni, fortemente osteggiate sin dall’inizio dai cosiddetti frugali, che stanno dando battaglia – come se non bastasse – anche sulla a governance, altro punto focale della discussione.
Il premier del noto paradiso fiscale, Mark Rutte, capofila dei rigoristi del nord, vorrebbe un meccanismo secondo cui debbano essere gli Stati membri (cioè il Consiglio Ue) a decidere sull’erogazione dei fondi: chiede addirittura che la procedura sia adottata all’unanimità (leggi possibilità di veto dei singoli Paesi, cioè la possibilità di bloccare l’erogazione di fondi a quegli stati che non facessero le riforme secondo i desiderata dell’Aja). Ipotesi bocciata sonoramente da Giuseppe Conte che, nel suo intervento al summit, molto forte e articolato sul piano giuridico, ha definito “fuori dalle regole, incompatibile con i trattati e impraticabile sul piano politico” la pretesa di avere il veto sui piani di riforme dei singoli Paesi.
E’ evidente che l’assurda pretesa di Rutte, oltre a non essere accettabile, sarebbe di difficile applicazione sotto il profilo pratico. Contrarissimo all’opzione olandese anche il presidente dell’Europarlamento David Sassoli, che auspica “un meccanismo di governance che fissi in modo adeguato il principio del controllo democratico sull’allocazione delle risorse e l’approvazione dei piani nazionali di ripresa e una gestione rispettosa del metodo comunitario”. In altre parole controllo affidato alla Commissione europea e al Parlamento europeo, non agli Stati membri. Questa impostazione difficilmente avrà il via libera perché anche Michel e la Merkel vorrebbero affidare la governance delle risorse al Consiglio.
Quello su cui invece si può mediare è il meccanismo decisionale: andrà trovata una formula di compromesso che non sia quella dell’unanimità come richiesto dall’Olanda. Che, come al solito a causa di Rutte, rimane sempre l’elemento di disturbo, visto che anche il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, alla fine ha ammorbidito le sue posizioni, ammettendo ieri nel corso del summit che “ci sono negoziati molto intensi e probabilmente lunghi” ma che è comunque “ottimista sul fatto di riuscire a raggiungere un risultato cruciale per l’Ue. La richiesta è che gli aiuti siano usati per “riforme lungimiranti e non per progetti orientati al passato”. Ma su questo punto l’Italia non ha espresso il minimo dubbio.