“Se sente dei rumori sono i droni che ci sorvolano e le bombe dell’esercito israeliano… A volte passano anche dei jet!”. Al telefono, collegato da Herbara, è Stefano Sozza, 37 anni, capomissione di Emergency, sbarcato due settimane nella Striscia di Gaza, dove l’associazione mira a stabilire alcune cliniche accessibili alla popolazione ormai allo stremo.
Sozza, dove vi trovate esattamente?
Siamo ad Herbara, nella zona centrale della Striscia, che è una zona umanitaria, però la Striscia è molto piccola, quindi la zona umanitaria finisce a 2/3 km da dove siamo noi… Per questo sente i bombardamenti. Solo il 12% della Striscia è zona teoricamente sicura, circa 46 kmq e qui sono accampate oltre due milioni di persone in arrivo soprattutto da Gaza e Rafah. E giuro che due milioni di persone sono tante…
Rispetto a ciò che si aspettava prima di partire, quale condizione ha trovato?
Ero stato a Gaza nel 2017 e mi aspettavo di tornare di trovare una situazione simile a quella che avevo lasciato. Invece la situazione oggi va oltre ogni immaginazione o prospettiva o aspettativa. Mi aspettavo una situazione difficile, ma mai mi sarei aspettato questo. Qui sono allo stremo sotto tutti i punti di vista: dall’assenza di cibo e acqua potabile, all’educazione alla salute… Non c’è più niente. E anche per noi operare comporta un livello di difficoltà incredibile: dal portare i farmaci al trovare materiale per costruire la nostra clinica, i costi da economia di guerra sono schizzati alle stelle. Per esempio un kg di farina due mesi fa costava fino a 25 euro, mentre prima costava 1 euro. Un kg di sale arriva a 6/7 euro, ma parliamo di famiglie sfollate che hanno perso tutto, casa, lavoro, tutti gli averi, quindi senza denaro per potersi sostentare. Infatti galoppa la malnutrizione e le condizioni igienico sanitarie sono pessime.
Il sistema fognario è collassato e tutti i liquami vengono scaricati in mare o sulla strada. E poi ci sono gli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano, che dà 6/12 ore di tempo per lasciare un territorio prima di attaccare. Così ci sono migliaia di persone sempre in movimento, che ogni volta perdono quel poco che hanno. Ciò comporta uno stress per le popolazioni, ma è un problema per noi operatori, che ogni volta siamo costretti a smontare tutte le strutture e a ricominciare da capo da un’altra parte… Mi stupisco di come questa gente riesca ad andare avanti, perché vive in condizioni inimmaginabili!
In cosa consisterà l’intervento di Emergency?
Nella Striscia il sistema sanitario pubblico è stato distrutto: dei 136 ospedali operativi prima del 7 ottobre, ora ne funzionano solo 16, dei quali 12 sono difficilmente accessibili dalle ambulanze con i feriti gravi perché attaccati dall’esercito. Inoltre mancano quasi del tutto i medicinali. Oltre ai feriti dai bombardamenti, la più colpita è tutta la fascia dei malati cronici che non riescono ad essere curati. La sola possibilità di esserlo per i pazienti oncologici, per esempio, è quella di essere evacuati a Gerusalemme o in Egitto, ma, siccome i permessi non vengono dati dalle autorità israeliane, quei pazienti sanno di essere condannati a morire. E sopportano in silenzio. Poi ci sono le classiche malattie croniche come ipertensione, diabete, patologie cardiovascolari e queste persone, non avendo più un sistema di cliniche di base, o intasano i pochi ospedali aperti o non si curano. Da qui il nostro progetto di installare per prima una clinica di medicina di base, dove faremo sia emergenze chirurgiche, sia forniremo le cure per quelle malattie che possano essere gestite ambulatorialmente. Poi apriremo un ambulatorio pediatrico, perché la popolazione di Gaza è molto giovane (il 45% dei 2,3 milioni di abitanti sono bambini, ndr). Infine vorremmo aprire un ambulatorio per le donne in gravidanza.
Quanti siete oggi a Gaza di Emergency?
Per ora siamo solo in due (ride…, ndr), il capo missione e il logista, anche perché entrare a Gaza è difficilissimo: si arriva solo a bordo di convogli umanitari che sono pochi e con posti limitati. Ma spero nell’arco di 3 o 4 settimane, proveremo a far entrare dottori ed infermieri. A regime lo staff sarà composto da otto operatori internazionali e circa 25 operatori sanitari di Gaza. Puntiamo molto sulle capacità locali, che per fortuna ci sono.
Quanto tempo avete atteso per poter entrare a Gaza?
Abbiamo iniziato a monitorare la situazione dal 7 ottobre. A maggio scorso stavamo per entrare dal valico di Rafah che però è stato chiuso dalle autorità israeliane. Quindi è stato tutto dirottato sul valico di Kerem Shalom che però è in territorio israeliano, quindi le tempistiche e le possibilità di accesso sono diminuite. Emergency era pronta a entrare a giugno, ma ci abbiamo messo due mesi di ottenere il pass. A decidere chi entra è l’esercito, che ora sta dando priorità alle organizzazioni che si occupano di salute.
I rapporti con l’Idf come sono?
Abbiamo rapporti quotidiani rispetto ai nostri movimenti nella Striscia: comunichiamo loro gli edifici dove viviamo e i posti dove andremo. Diamo ora di partenza, di arrivo e percorso di ogni nostro spostamento. In questo modo dovremmo avere la garanzia che l’edificio dove dormiamo o l’auto sulla quale viaggiamo non venga bombardata.
Lei ha operato in Sudan, Siria, Ucraina, Afghanistan, quelle crisi sono paragonabili alla situazione di Gaza?
Onestamente no. Ogni crisi è difficile, ma questa lo è in maniera particolare perché si tratta di un territorio molto piccolo, un’enclave, che è sotto embargo dal 2007… Gaza City, il Nord, l’Est della Striscia sono totalmente distrutte: l’85% delle strade e il 65% degli edifici non esistono più. Sommando tutti questi fattori, posso dire che questo è forse il Paese più difficile nel quale ho operato.
Farete anche vaccinazioni? Martedì l’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue Josep Borell ha richiesto – in una delle poche volte che l’Ue ha alzato un po’ la voce – un cessate il fuoco di tre giorni per poter vaccinare i bambini dalla poliomielite…
Sì, le faremo. Ha fatto molto scalpore la storia del bimbo di 10 mesi positivo alla polio, così ora lo sforzo delle Nazioni Unite è quello di riuscire a far entrare le dosi per una vaccinazione di massa ed evitare un’epidemia. Ma la polio è solo una delle mille problematiche… speriamo sia una leva per dare respiro a questa popolazione allo stremo.
Da quell’inferno, c’è una riflessione che la colpisce in particolare?
Da quando siamo entrati, due settimane fa, non c’è stato un singolo giorno che non ci sia stato un bombardamento o non abbiamo avuto i droni sulla testa, 24 ore su 24. Se pensiamo a quanti soldi sono stati spesi per quelle armi, sa quanti ospedali avremmo potuto costruire e quanto cibo avremmo potuto dare a questo popolo…?