A Hashemi Shemali c’è una scuola. È la scuola Luvaba Primary School che è stata ristrutturata grazie ai fondi di Back to the Future, progetto delle ong Terre des Hommes Italia e Olanda, Avsi e War Child Holland finanziato con i soldi del Madad Fund, il Regional Trust Fund europeo creato nel 2014 per rispondere all’emergenza siriana cui l’Unione Europea ha dedicato 12 milioni di euro. Dentro la scuola c’è un bambino che ci fa vedere il suo quaderno. Si chiama Alì, ha sei anni, e viene dalla Siria; il suo compagno di banco, che di anni ne ha sette, si chiama Adham ed è giordano. Entrambi sorridono, e la maestra – che ha disegnato sulle guance di entrambi con un pennarello la scritta “Bravo!” – scoppia in un applauso.
Applaudono anche gli altri bambini e perfino la preside – un’energica sessantenne con jeans scoloriti e velo verde – che poco prima ha raccontato delle difficoltà che ha incontrato in questi anni in cui la sua scuola, un po’ come tutta la Giordania e il vicino Libano, si è trovata ad accogliere migliaia di rifugiati.
“All’inizio – spiega la donna – quando un aereo passava sopra la scuola, tutti i bambini siriani si buttavano sotto i banchi e iniziavano a piangere, a tremare. C’è voluto molto tempo perché tornassero ad avere fiducia”. Fiducia è una parola che torna spesso nei discorsi dei profughi siriani, e delle persone che con loro hanno a che fare.
Quella dei bambini che cominciano a parlare con gli altri bambini, che smettono di vergognarsi per quello che hanno vissuto e visto, per la sofferenza che hanno provato. Come Camel che, paralizzato, non veniva ammesso a scuola e ha trovato un sostegno nei corsi di Back to the Future, o come Ahmed che all’inizio aveva paura degli altri. Lui, ultimo di quattordici figli, instradato ad aiutare il padre nei suoi lavori saltuari – adesso da muratore, adesso da venditore estivo di gelati – sembrava destinato all’analfabetismo.
“La Giordania – spiega Deborah Da Boit, coordinatrice regionale di Terre des Hommes per il Medio Oriente – ospita oggi circa oltre 650mila rifugiati siriani, di cui 240mila minori: di questi ben due bambini su tre non vanno a scuola. L’istruzione è il passo principale per aiutarli a tornare nel loro splendido Paese. Prima di essere qui ero in Siria, e lo ricordo come un posto meraviglioso, un vero paradiso”. Situazione ancora più problematica in Libano, paese grande come l’Abruzzo con i suoi 4 milioni di abitanti. Ebbene, qui i siriani scappati dalla guerra sono, secondo le stime Unhcr, un milione e mezzo. Di questi, circa mezzo milione sono bambini, esposti a un futuro lontano dal sistema scolastico: molti bambini finiscono nelle reti del caporalato, per centinaia di ragazzine, invece, il destino è quello dei matrimoni infantili, con le famiglie che le danno in spose ai libanesi o ai siriani per togliersi una bocca da sfamare. Accedere al sistema scolastico libanese, poi, non è semplice. Oltre alla registrazione, è necessario superare un esame che certifichi la conoscenza dell’inglese e il francese, lingue utilizzate nei programmi scolastici del Libano. Ed è questo gap che Back to the future mira a colmare, per dare un futuro alla nuova generazione, costretta dalla guerra a non avere più una casa. “È un progetto di 30 mesi da 15 milioni di euro, di cui 12 sono stanziati dall’Ue e 3 dalle ong”, spiega Davide Amurri, coordinatore di tutto il progetto. “L’obiettivo è mettere i ragazzini nelle condizioni di andare in classe e di rimanerci”.
La speranza di un futuro diverso nelle scuole di Back to the future è reale. E lo si legge negli occhi dei bambini, che sognano di tornare nella loro Siria, un paradiso purtroppo oggi distrutto, che nei loro disegni è un fiume rosso che attraversa delle case bombardate, o la bandiera della Siria con due ali. “Ho pensato – ci spiega Rashad, che ha sette anni ed è l’artefice del disegno – che forse tutto si può sistemare. Io voglio studiare per diventare medico, e mio fratello vuole fare l’insegnante. Sogniamo di essere utili agli altri, e restituire quello che stiamo ricevendo”.
Sognano di fare le “dottoresse dei bambini” anche Zahira e Halima, di quattro e cinque anni, che stanno in braccio al padre Azhid, mentre racconta la sua storia nella casa diroccata alla periferia di Amman: “Mi ero appena laureato in giurisprudenza, quando è iniziata la guerra. Pensavamo che sarebbe durata poco, ma ci sbagliavamo. L’Isis veniva per convincerci a combattere con loro. Dicevano che era un valore religioso combattere chi ci faceva del male. Mi dicevano di non andare in giro con mia moglie, e mi chiedevano di pagare una quota fissa per sovvenzionare la battaglia. Ma la religione islamica è una religione pacifica, e loro stavano usando dei termini in modo sbagliato approfittandosi dei tanti che non conoscevano bene le cose, e che alla fine si arruolavano. La situazione era gravissima. Negli anni abbiamo cambiato tante volte casa per cercare la tranquillità, fino a quando non c’era più modo di salvarsi”. Gli occhi di Azhid, si fermano. “Mia moglie stava frequentando il primo anno di università, ma abbiamo lasciato ogni cosa e siamo scappati. Abbiamo passato cinque giorni e cinque notti nel deserto, sotto la pioggia, al freddo. Qui è dura, faccio il muratore, per la crisi economica però si costruisce poco. Comunque – si ferma, poi allunga una mano verso le tre figlie – sono fiducioso”. La moglie Wasal, che non ha ancora 22 anni, fra poco partorirà il quarto figlio. “Il nostro futuro – continua lei – non lo vediamo qui, ma per ora ci focalizziamo sulle nostre figlie. Noi vogliamo che continuino a studiare e che riescano a fare quello che desiderano. La nostra generazione ha distrutto il nostro Paese, e toccherà a loro rifondare tutto”.
Il progetto, intanto, si avvia alla sua scadenza naturale. Ma l’obiettivo è quello di giungere a un rifinanziamento da parte dell’Europa, fondamentale per proseguire sul solco già tracciato e offrire un futuro ai bambini siriani. Anche perché la partecipazione anche di donatori istituzionali e privati nel tempo è cresciuta. L’esempio più evidente è proprio quello di Terre des Hommes Italia che ha chiuso il bilancio 2018 con una crescita del 6% delle entrate globali, che sono passate dai 23.937.561 ai 25.363.205 euro, a dimostrazione della consolidata fiducia dei donatori istituzionali e privati nei confronti dell’attività di aiuto umanitario d’emergenza e cooperazione allo sviluppo della ong. Nel 2018 il 91, 76% delle risorse spese è stato destinato alle attività direttamente connesse al fine istituzionale ovvero la protezione dell’infanzia, e solo il6,25% alle spese generali e 1,99% alle attività di raccolta fondi. In totale i beneficiari diretti dell’organizzazione nel mondo sono stati 880.000, in maggioranza bambini e donne. “Anche quest’anno abbiamo chiuso in modo soddisfacente e positivo il bilancio dell’esercizio 2018”, dichiara Donatella Vergari, Presidente della Fondazione Terre des Hommes. “Anno intenso, ricco di sfide per proseguire nella nostra missione di aiuto all’infanzia in difficoltà”.