Carte di credito, pagamenti a parlamentari e ora pure una casa acquistata dall’ex premier Matteo Renzi. Se non fosse chiaro a tutti, il caso giudiziario sulla Fondazione Open è tutt’altro che finito e l’ultima bomba è quella sganciata ieri da L’Espresso in merito all’acquisto, nel 2018, di un villino sulle colline toscane, dal valore di 1,4 milioni di euro, da parte del leader di Italia Viva. Una compravendita che, stando a quanto riporta il settimanale, nasconderebbe non poche stranezze. Parte del denaro, per la precisione 700 mila euro, usato per entrare in possesso della proprietà, infatti, sarebbe stata anticipata dall’imprenditore Riccardo Maestrelli che guarda caso era stato nominato dal governo Renzi in Cassa depositi e prestiti. Ma c’è di più perché l’uomo, tra le altre cose, figurerebbe anche nell’elenco dei finanziatori di Open.
DIFESA A OLTRANZA. A sentire l’ex premier, le cose non starebbero affatto come raccontato da L’Espresso. Fermo restando che il bonifico ci fu davvero ma che non sarebbe minimamente legato alla vicenda della Fondazione Open, a suo dire si sarebbe trattato di una scrittura privata tra amici. Non solo. Lo stesso Renzi, in una conferenza stampa ha precisato: “Nel 2018 ho ricevuto un importante ritorno economico dalle mie attività, fino a quel momento ho fatto solo politica quindi guadagnavo poco, 830mila euro. Nel 2019 la mia dichiarazione dei redditi sarà di più di un milione, sono i miei proventi. Dovendo effettuare un anticipo bancario ho fatto una scrittura privata con un prestito concesso e restituito nel giro di qualche mese, quattro mesi circa”.
Tuttavia, al contrario di quanto si possa pensare, di questa proprietà se ne parlò già all’indomani dell’acquisto. Poche settimane prima di entrare in possesso del villino, infatti, Renzi aveva detto in tv di avere solo 15 mila euro sul proprio conto corrente e ciò bastò a scatenare un vespaio di polemiche da parte di chi gli chiedeva come fosse riuscito a pagare la casa. All’epoca dei fatti il politico si difese spiegando che aveva acceso un mutuo, aggiungendo anche che avrebbe chiarito tutto pubblicamente, salvo poi dimenticarsene.
L’INCHIESTA. Quel che è certo è che l’inchiesta sulla Fondazione Open, al cui vertice c’era l’avvocato Alberto Bianchi, prosegue senza alcuna sosta. Ieri, infatti, c’è stata la seconda tranche di perquisizioni a carico di finanziatori (che al momento non risultano indagati) della cassaforte renziana. Una vicenda su cui sta lavorando in prima persona il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, ossia lo stesso che ha indagato Tiziano Renzi e Laura Bovoli, che vede in Open “un’articolazione di partito” piuttosto che una semplice fondazione. Un fascicolo in cui per primo è stato iscritto al registro degli indagati Bianchi, a cui viene contestato il traffico di influenze e il finanziamento illecito, poi il renziano di ferro Marco Carrai (nella foto) che sedeva nel cda della fondazione.
“Un tempo i magistrati della Procura di Firenze davano la caccia al mostro di Scandicci, oggi l’attenzione è più sul senatore di Scandicci…”, è il sarcastico commento di Renzi sull’inchiesta. Dura la replica dell’Anm: “Gravissime le dichiarazioni di un esponente delle istituzioni che, per reagire ad un’iniziativa giudiziaria, attacca personalmente i magistrati titolari dell’indagine”. Nella lista dei perquisiti spuntano nomi importanti. Tra loro c’è Davide Serra, imprenditore amico dell’ex premier; la multinazionale del farmaco Menarini della famiglia Aleotti nelle persone Alberto Giovanni, Lucia e Benedetta Aleotti, e le società dell’armatore napoletano Vincenzo Onorato.
Oltre a loro i finanzieri, coordinati dai magistrati Antonino Nastasti e Luca Turco, hanno fatto visita anche all’Impresa Pizzarotti di Parma che si occupa di costruzioni, alla Getra Power di Marcianise società elettrica della famiglia Zigon, del gruppo Gavio, concessionario italiano delle autostrade. Una lista lunga in cui figurano anche la Garofalo Health Care, società del settore della sanità privata, e la British American Tobacco. Un’inchiesta in cui, senza girarci intorno, i magistrati toscani sospettano che l’avvocato Bianchi fungesse da mediatore con la politica e in particolare con il cosiddetto giglio magico di Renzi.