Vittorio Sgarbi, critico d’arte dall’eloquio infuocato e dai gesti teatrali, si trova oggi dall’altra parte della tela: accusato di possedere e aver contraffatto un dipinto del Seicento rubato, un’opera di Rutilio Manetti, “La cattura di San Pietro”. Un quadro che dal castello piemontese di Buriasco sparì nel 2013, per riapparire anni dopo, sorprendentemente, proprio in una mostra di Sgarbi a Lucca, in una versione “inedita”, con una torcia aggiunta nell’angolo in alto a sinistra. Una variazione di pennello che ha sollevato sospetti, tramutatisi presto in indagini. Per quell’opera, che secondo la procura di Macerata sarebbe stata “taroccata” e riciclata, il critico rischia fino a 12 anni di carcere per riciclaggio e contraffazione.
Ma c’è di più: la confessione del pittore-copista Pasquale Frongia, detto Lino, che ammette di aver alterato l’opera su richiesta dello stesso Sgarbi, aggiunge peso all’accusa. A incastrarlo anche una traccia quasi ironica: un tubetto di tempera trovato in una delle sue case, comprato a pochi passi dal Collegio Romano, lì dove Sgarbi lavorava da sottosegretario alla Cultura. Così, mentre lui insiste che quel quadro l’ha trovato in soffitta “già così com’era” il mistero si infittisce.
Ecco l’amara ironia: l’uomo che si è sempre fatto paladino della purezza artistica e della verità storica, sembra aver “restaurato” un’altra storia, la propria. Un ritratto poco lusinghiero di un critico d’arte che, cadendo nella sua stessa vanità, rischia di finire prigioniero di un inganno non solo per i giudici ma anche per quell’arte che dice di perorare.