Il lockdown imposto da marzo a maggio ha determinato una chiusura forzata di tutti i luoghi pubblici, inclusi musei e aree archeologiche, con conseguente perdite quantificabili, almeno per i musei statali, nell’ordine di circa 20 milioni di euro al mese. Poiché dagli introiti da biglietteria, la massima parte dei musei pubblici italiani (statali e non) ricavano mediamente il 90 per centro delle entrate, ne deriva che la chiusura dei diversi luoghi della cultura ha determinato non solo il crollo dei relativi consumi culturali ma anche delle entrate finanziarie che alimentavano in quota parte le entrate del settore.
Come ripartire, quando sarà possibile farlo? Circolano diverse proposte per sostenere il settore culturale; tutte ruotano intorno a due consolidati meccanismi; erogazione di denari pubblici e rinuncia all’esazione fiscale nei confronti dei vari soggetti che vi operano a diverso titolo. Tali proposte, anche se muovono dal condivisibile proposito di sostenere i diversi attori del “mercato culturale”, presuppongono sempre un incremento del debito pubblico o la riduzione delle entrate fiscali (che porta allo stesso risultato). Di qui la difficoltà di considerare tali proposte, variamente declinate a seconda di chi le formula, sostenibili e realistiche, a meno di non accettare l’idea di un indebitamento perenne dello Stato dal quale potremmo non uscire mai. Basti pensare che (parola degli economisti di Goldman Sachs) in Italia il rapporto debito pubblico-Pil salirà dal 135% fino al 161% nel 2020 e potrebbe rimanere stabile al di sopra del 145% nei prossimi anni.
LE PROSPETTIVE. Qualunque sia il modo attraverso l’Italia si risolleverà (Coronabond, accesso agli aiuti del MES o emissioni di titoli obbligazionari italiani), è certo che bisognerà tornare a produrre e incrementare il PIL, così da aumentare i redditi dei cittadini e le entrate fiscali. Come si concilia tutto ciò con il necessario rilancio dell’economia del patrimonio culturale e dei settori produttivi collegati? Una delle soluzioni, a portata di mano, si chiama “fruizione a pagamento del patrimonio culturale pubblico digitalizzato”. Fino ad oggi, le attività di digitalizzazione sono state interpretate come una sorta “regalo” agli utenti per incrementare la fruizione del patrimonio culturale, bene supremo. Dopo l’emergenza da Coronavirus, invece, il bene supremo della redditività economica si affianca a quello, pur irrinunciabile, della fruizione culturale.
La crisi aiuterà a comprendere quel che il benessere in tempo di pace impediva di vedere. Di qui la necessità di immaginare attività di fruizione che portino anche denari nelle casse pubbliche pur in caso di chiusura coatta di musei e aree archeologiche (biblioteche ed archivi sono già ad entrata gratis). Se il 90% delle entrate museali deriva dalla biglietteria, ogni quarantena sarà sempre in grado di (ri)mettere in crisi il settore. Per questa ragione, si devono ipotizzare attività di utilizzazione del patrimonio culturale che prescindano dall’ingresso fisico: pensiamo alla vendita telematica di prodotti commerciali derivati dai beni culturali, alle riprese filmiche e fotografiche a pagamento (e non gratuite), alla cessione di licenze d’uso dei marchi commerciali che “sfruttino” (parola odiosa per i puristi…a caccia poi di soldi) segni ed immagini del patrimonio culturale.