di Stefano Mancini per La Stampa
Ayrton Senna rimane il termine di paragone delle vittorie impossibili, delle feroci rivalità e di quel carisma che trascende il talento. Vent’anni dopo la morte a Imola, tra appassionati capita ancora di chiedersi: «Tu dov’eri quando è successo?». Il Primo maggio ’94 è la data che cambia per sempre l’automobilismo: la F1 perde il suo simbolo ventiquattr’ore dopo aver pianto un altro pilota, Roland Ratzenberger, in uno dei gran premi più tragici della storia. L’ultima vittima era stata Elio De Angelis in un test nel 1986, l’ultima in gara Riccardo Paletti nel 1982. La Formula 1 si scopriva di nuovo fragile e crudele. Da allora comincerà una rivoluzione nel nome della sicurezza che è la più grande eredità lasciata da Senna. Circuiti, monoposto, sistemi di protezione attivi e passivi hanno salvato piloti come Kubica e Massa, gli ultimi a essere scampati a incidenti paurosi.
Poi c’è il Senna che sopravvive come campione di riferimento. Pochissimi l’hanno avvicinato nei risultati, nessuno lo ha eguagliato nella personalità, ma tutti lo ricordano, anche quelli che nel ’94 guidavano il triciclo. Più di lui ha vinto Michael Schumacher, che è un altro genere di icona, quella del campione perfetto, freddo, maniacale nella cura dei dettagli. Eppure anche Schumi ha imparato da Senna: la preparazione fisica che per lui fu scienza e che oggi è routine, fu proprio Ayrton per primo a introdurla come regola sportiva.
Un altro grande vincente di oggi, Sebastian Vettel, ha cannibalizzato quattro campionati del mondo, uno in più di Senna, ma è considerato un clone di Schumacher: tedesco, preciso, divoratore di record. «Se dovessi indicare uno che somiglia a mio fratello penserei a Lewis Hamilton», ha detto di recente Viviane Senna. Sì, una vaga somiglianza c’è, accennata in alcune gare straordinarie, nella personalità al volante, in un certo misticismo tradotto in tatuaggi e ciondoli a tema religioso. Ma ci vuole altro per passare da bravo, talentuoso o campione a simbolo.
Senna, la sua grandezza l’ha costruita con alcune gare che ancora gli appassionati si raccontano e i tecnici non si spiegano: la prima a Montecarlo nel 1984 alla guida di una Toleman, quando sotto il diluvio rimontò fino alle spalle di Alain Prost, che chiese e ottenne l’interruzione della gara prima che quel ragazzino lo umiliasse sotto gli occhi delle principesse. Era la prima delle sue imprese sul bagnato, frutto di coraggio e, soprattutto di una straordinaria sensibilità: la macchina per lui era un’appendice del corpo. Quando gli altri rallentavano, Senna continuava a spingere al limite delle leggi della fisica. «L’automobilismo fa parte di me, del mio corpo» è una delle tante citazioni che ci ha lasciato. Con la sua personalità è riuscito a far passare per impresa l’incidente con Prost a Suzuka nel ’90. Uno scontro annunciato e cercato che gli regalò il titolo mondiale e lo risarcì del torto subìto l’anno precedente sempre da Prost, il nemico di una vita. Chiamandola con il suo nome, fu una vendetta non sanzionata. Dopo di lui a nessuno venne concesso tanto, come imparò a proprie spese Michael Schumacher nel ’97 tentando di speronare Jacques Villeneuve.
Anche nella rivalità Ayrton segnò un’epoca: lui e Prost, nessuno mai si era spinto tanto avanti, da compagni di squadra prima e da rivali poi. Oggi ascoltiamo i dialoghi via radio tra piloti bravi e celebrati e i propri ingegneri: «Il mio compagno è lento, ditegli di lasciarmi passare», chiedono. Senna era di un altro punto di vista: «Non esiste una curva in cui è impossibile sorpassare». Ed era sempre pronto a dimostrarlo.