Giornata nera per gli ex parlamentari di Forza Italia alle prese con le grane giudiziarie. Non solo la condanna a 10 anni per Nicola Cosentino (leggi l’articolo), ma anche quella a 6 anni di reclusione e 3 di interdizione dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa comminata all’ex senatore berlusconiano Antonio D’Alì (nella foto).
La sentenza, emessa dai giudici della Corte d’Appello di Palermo, è arrivata al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011. “è stato il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, ha detto, nella requisitoria, il procuratore generale Rita Fulantelli.
L’Appello bis era iniziato dopo l’annullamento, nel 2018, della Corte di Cassazione del precedente giudizio di assoluzione e prescrizione per i fatti precedenti al 1994. Come nel caso di Cosentino, se la riforma Cartabia sulla prescrizione fosse già in vigore, la sentenza a carico di D’Alì sarebbe saltata perché l’appello avrebbe già superato il limite di durata di tre anni. Nel giudizio di secondo grado, sono stati sentiti alcuni testimoni, finora mai ascoltati, per colmare le “cadute logiche” evidenziate dalla Suprema Corte.
In particolare la “cesura illogica della suddivisione netta in due periodi”, pre e post 1994, che era stato fissato con la data dell’ultimo assegno consegnato da D’Alì a Francesco Geraci, amico del latitante di Castelvetrano, per una compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara. Un episodio accertato da tutte le sentenze finora emesse, seppur coperto da prescrizione, che data all’indomani delle Stragi del ‘92 il legame tra D’Alì e l’ultimo ricercato di Cosa Nostra.