Segregazione & lavoro, il pregiudizio tiene in ostaggio le donne

In Italia le donne lavorano di più, ma restano confinate negli stessi mestieri, con salari bassi e poche possibilità di carriera

Segregazione & lavoro, il pregiudizio tiene in ostaggio le donne

In Italia le donne lavorano. Sempre di più, sempre negli stessi mestieri. La retorica dell’emancipazione passa spesso per le statistiche sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro, ma dietro ai numeri si nasconde un’altra realtà: quella della segregazione occupazionale, il recinto invisibile che tiene le donne confinate nei ruoli di cura, nei servizi e nelle professioni meno pagate. È la fotografia nitida che emerge dal recente rapporto CNEL-Istat, che smonta il mito di un mercato del lavoro in progressivo riequilibrio di genere.

Nel 2023, il tasso di attività femminile tra i 15 e i 64 anni ha toccato il 57,7%, un massimo storico per l’Italia. Una conquista apparente: lo stesso rapporto segnala che il nostro Paese resta ultimo in Europa per occupazione femminile, distanziato di venti punti percentuali dalla Germania e di otto dalla Spagna. Il divario non è solo quantitativo ma qualitativo. Le donne italiane, quando lavorano, lo fanno più spesso con contratti precari, a tempo parziale (spesso involontario) e in settori a bassa retribuzione. Poco più della metà ha un impiego “standard”, stabile e a tempo pieno, contro il 70% degli uomini.

La gabbia delle ventuno professioni

C’è un dato che racconta meglio di altri la prigionia professionale delle donne italiane: per raggiungere la metà dell’occupazione maschile servono 53 mestieri diversi. Per quella femminile bastano 21. È la misura della segregazione orizzontale: le donne si concentrano in pochi ruoli, quasi sempre gli stessi da decenni. Insegnanti, infermiere, commesse, segretarie, badanti, addette alle pulizie. Professioni considerate “femminili”, che le inchiodano in settori dove i salari sono bassi e le prospettive di carriera inesistenti.

Nel frattempo, le donne continuano a essere una sparuta minoranza nei settori STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica). Meno del 18% degli specialisti ICT in Italia è donna, poco meno di un quarto degli ingegneri e architetti. Il paradosso è che le ragazze studiano più dei ragazzi, ma si iscrivono meno ai corsi scientifici. Solo il 20% delle immatricolate sceglie una disciplina STEM, contro quasi il 40% dei maschi. Anche qui la segregazione inizia prima di entrare nel mercato del lavoro, alimentata dagli stereotipi di genere che incanalano le scelte formative verso ambiti umanistici, educativi e sanitari.

Il soffitto di cristallo resta intatto

Se la segregazione orizzontale tiene le donne confinate in alcuni settori, quella verticale impedisce loro di salire ai vertici. Il “soffitto di cristallo” è ancora saldo. Nelle società quotate italiane, la presenza femminile nei consigli di amministrazione ha superato il 40% grazie alla legge Golfo-Mosca. Ma tra gli amministratori delegati le donne restano meno del 3%. In politica la rappresentanza si ferma al 33% in Parlamento, ma precipita nei livelli locali: solo il 15% delle sindache nei comuni capoluogo e una sola presidente di Regione.

La sanità e la magistratura raccontano una storia simile. Le donne sono la maggioranza tra i medici e i magistrati, ma ai vertici svaniscono. Solo il 21% dei primari ospedalieri e meno del 30% dei magistrati con ruoli direttivi sono donne. Nell’università, la quota di professoresse ordinarie si aggira tra l’11% e il 25%, a seconda delle fonti. Anche qui, la carriera si blocca ai piani alti.

La trappola culturale e la fuga dal lavoro

Dietro la segregazione occupazionale c’è un nodo che si chiama conciliazione vita-lavoro. L’Italia è il Paese dove la maternità penalizza di più le donne. Il divario occupazionale tra madri e padri supera i 30 punti percentuali. Una donna su cinque lascia il lavoro dopo il parto, il più delle volte perché non riesce a gestire il carico di cura. I servizi per l’infanzia sono insufficienti e disomogenei: al Sud meno del 13% dei bambini trova posto in un asilo nido, al Nord si sfiora il 40%. Una geografia che amplifica le disuguaglianze territoriali, lasciando le donne meridionali ancora più isolate.

I costi sono proibitivi: in media 640 euro al mese per un nido privato, mentre l’offerta pubblica copre meno della metà dei posti disponibili. Il ritardo nella spesa dei fondi PNRR, che dovrebbero finanziare nuovi asili, rischia di perpetuare questa carenza strutturale.

La segregazione occupazionale femminile in Italia non è un incidente di percorso. È un sistema che funziona esattamente come deve, per mantenere le donne al margine del potere economico e politico. Un recinto fatto di stereotipi, contratti precari, barriere culturali e politiche inadeguate. E ogni volta che si parla di parità di genere con toni celebrativi, questi numeri ci ricordano quanto la strada sia ancora lunga.