di Peppino Caldarola
C’era il dualismo D’Alema-Veltroni, c’è oggi quello Letta-Renzi. I primi due, ex comunisti, si contendevano la guida dell’opposizione, gli altri due quella del governo. È la storia che si riprende la prima scena riassegnando i ruoli secondo antiche gerarchie. Un anno fa Renzi era quello di “destra”, berlusconiano inconsapevole, liberista di ritorno, ostile alla sinistra. Oggi è molto radical, antiberlusconiano quanto basta, icona del vendolismo ultima versione, mentre Letta, uomo forte dell’opaca e socialdemocratica segreteria Bersani, si ritrova a rappresentare il governo delle larghe intese, fautore della convergenza di tutti i moderati, realizzatore del programma di governo berlusconiano.
La politica non va presa sul serio nelle sue dichiarazioni di guerra ma esaminata nei fatti e nei comportamenti. Questi dicono che Renzi, un po’ appannato nella sua immagine trasversale, si presenta come il leader che parla di futuro, mentre Letta rappresenta il quieto vivere, il procedere senza avventure. L’uno, Renzi, è devastante e fantasioso come Fanfani; l’altro, Letta, è riluttante e pigro come Moro. In questo scontro di personalità di lungo corso della storia della Balena bianca gli ex comunisti fanno la parte degli invitati non graditi. Cuperlo, con la sua eleganza e cultura, rappresenta un mondo che rischia di scomparire e sembra, a memoria delle sue origine triestine, l’angoscia della mitteleuropa sconfitta e orgogliosa della propria cultura. D’Alema finge di combattere ma fra Letta e Renzi preferisce lo sparigliamento del sindaco. Veltroni sta in disparte nella speranza che qualcuno si ricordi che il centro-sinistra, sigla contesa da Prodi e dai prodiani, l’ha fondato lui.
C’è un solo protagonista dell’ex Pci che tiene il centro della scena e anche qui c’è una vendetta della storia. È Luciano Violante. Sorprende la sorpresa sulle sue ultime prese di posizione. Della generazione di uomini di legge affascinati dal Pci, Violante ha sempre rappresentato l’ala legalitaria. In lui c’è la severità della legge ma anche la sua applicazione che tenga conto dei rapporti politici. Oggi lo demonizzano dopo che per tanti anni lo hanno eletto icona del giustizialismo. Eppure il Violante di oggi sostiene tesi non estranee alla tradizione culturale della sinistra.
C’è innanzitutto l’idea che l’accusato o il colpevole abbia sempre un diritto estremo di autodifesa che va tutelato, c’è poi la convinzione che la battaglia giudiziaria non può fare a meno della sua lettura politica. Il suo lodo non è un salvacondotto ma il tentativo di rendere indiscutibile la decisione finale senza lasciare nel perdente la sensazione della persecuzione. Lo demonizzano mentre dovrebbero fargli un monumento.
Il ragionamento di Violante è teso al dopo, al momento in cui Berlusconi, per la somma dei processi e per la sconfitta politica, sarà fuori e l’intero sistema politico sarà sconvolto dalla caduta di un suo protagonista. Violante vuole evitare che questa evento si carichi di rancori e di vendette come è capitato dopo la fine della prima repubblica. C’è chi non vuole fare prigionieri e chi si occupa che il prigioniero abbia un trattamento umano. Se in questa scelta c’è anche l’idea di porsi come uomo super-parte è un effetto secondario. Prima viene la sua idea di un “cambio” che lasci meno feriti sul proprio terreno. Il radicalismo che affligge l’intero Pd, da Renzi e Letta ai superstiti dell’ex Pci, non riesce a cogliere nella sua proposta l’elemento lungimirante, impopolare nell’immediato ma visionario nell’immaginare il futuro. La sortita di Violante è però destinata a una pura manifestazione di buona volontà.
Il Pd di oggi è un medio partito radicale di massa, il contrario della sua ragione d’essere. In questa lunga guerra dei ventanni al fenomeno Berlusconi l’ala riformista ha vinto molte battaglie, ad esempio quella contro Cofferati, ma ha perso la guerra. Oggi sia Renzi sia Letta cercano di guidare un mondo che è assai più a sinistra di loro. Il paradosso è che questo mondo, che nasce gradualista e riformista, oggi è egemonizzato dal giustizialismo. La sua cultura è assai più in debito verso l’azionismo di Scalfari o l’intransigenza del “destro” Travaglio di quanto abbia in comune con la prudenza della tradizione comunista italiana. Per la prima volta la destra dirige la sinistra.
Renzi in questo panorama continua a rappresentare la voce più nuova. Vuole un partito plebiscitario, vuole guidarlo per mettere in salvo la sua futura premiership, si propone di pensionare, anche con cooptazioni indecenti, una intera classe dirigente. Letta invece rappresenta la vera tradizione centrista, quel muoversi per piccoli passi che scommette più sul logoramento altrui che sulla propria capacità di sfondare le linee. Entrambi ereditano una sinistra in cui si è persa la sinistra.