“Il Pd fa i congressi e li fa davvero: discute e definisce una linea”. Per l’ennesima volta alla segretaria Elly Schlein tocca ribadire un concetto naturale in qualsiasi consesso ma non nel Pd, dove i “dissennatori” interni e i loro alleati esterni ambiscono a un partito del tempo che fu.
L’ultimo casus belli è la segretaria che decide di firmare i referendum proposti dalla Cgil che prevedono anche l’abolizione del Jobs act, la riforma del fu presidente del Consiglio Matteo Renzi che ha accelerato la liberalizzazione e la precarizzazione del lavoro. Dalle parti degli ex renziani (e dei renziani stessi che parlano di Pd più di quanto facessero quando erano iscritti) si grida allo scandalo.
Una segretaria che decide di fare politica per di più con quei cattivoni dei sindacati per loro è uno scempio. I gueriniani di Base riformista e i bonacciniani ci spiegano che Schlein dovrebbe convocare la direzione del partito per ottenere il via libera anche sul menù della cena.
I riformisti sono comprensibilmente agitati, da Lorenzo Guerini a Marianna Madia, da Alessandro Alfieri a Simona Malpezzi. i quotidiani liberal insistono nella favola che il Jobs act avrebbe contribuito alla crescita dell’Italia. C’è da capirli: per loro il Paese è una combutta di imprenditori liberali sui diritti e statalissimi quando si tratta di incassare i contributi pubblici o le leggi a favore.
Renziani e ex renziani si sono scordati di leggere il programma con cui Schlein ha vinto le primarie e con cui il Pd si è presentato nel 2022
I sabotatori di Schlein fingono di non sapere che la loro segretaria, piaccia o meno, è la stessa che abbandonò il Pd nel 2015 proprio per la riforma sul lavoro licenziata da Matteo Renzi. “Me ne vado anch’io, insieme a Civati. È troppo tempo che non mi riconosco più in nulla di quello che fa questo governo”, disse l’allora eurodeputata Schlein nel maggio 2015: “Vale la pena di lottare dentro al partito finché c’è il partito, ma io temo che il partito non esista più e si sia trasformato in un’altra cosa, molto diversa da quella cui avevamo entusiasticamente aderito e da ciò che era nato per essere, perno della sinistra che vogliamo”.
L’abolizione del Jobs act era scritto chiaro e tondo nel programma elettorale di Schlein per le primarie che l’hanno portata alla segreteria. Sarebbe bastato trovare un minuto per leggerlo piuttosto che investire tempo a progettare improbabili sabotaggi che si sono rivelati fallimentari.
Non solo, il ”superamento del Jobs act” era scritto nel programma elettorale con cui il Partito democratico ha corso alle ultime elezioni politiche del 2022. Chissà se leggono il programma elettorale che si candidano per rappresentare, da quelle parti. L’ha ricordato oggi anche il del Arturo Scotto che è capogruppo del Pd in commissione Lavoro.
Hanno poco da strillare quindi dalle parti di Italia viva, da cui giunge la voce indignata di Renzi che dice “votare il Pd è come votare la Cgil” (ma magari, sospirano gli elettori delusi da decenni) e s’ode l’ex ministra Bellanova stupita perché “firmare il referendum sul Jobs act significa annullare una stagione del Pd”, che è esattamente il motivo per cui è stata votata Schlein.
Su un’osservazione dei renziani però non si può non essere d’accordo: “come fanno i riformisti a stare nel Pd?”, dice l’ex presidente del Consiglio. Già, perché non raggiungono il loro ispiratore politico? La giornata politica è anche un indizio sulle alleanze: quanto ci si può stupire che il Pd di Schlein sia più vicino al M5s di Conte che a Renzi o a Calenda? La demonizzazione dei sindacati e la loro delegittimazione è un crinale limpido. Con buona pace di tutti.