La discussione è attesa oggi al plenum del Consiglio superiore della magistratura, organo che sulla vicenda Consip rischia di impossessarsi della non onorevole definizione di nuovo porto della nebbie, ormai scrollata definitivamente di dosso dalla Procura di Roma. L’oggetto è il teorema messo nero su bianco in una dura relazione della sesta commissione di Palazzo dei Marescialli, dove si ipotizza che il Governo avrebbe imposto per decreto l’obbligo degli inquirenti (polizia, carabinieri, Guardia di Finanza) di riferire l’andamento delle loro indagini ai superiori. Un principio che in un Paese normale sarebbe del tutto scontato, implicitamente naturale in una struttura gerarchica. Qui invece un ufficiale che informa il suo capo diretto mette in discussione niente popò di meno che l’autonomia della magistratura. Ma andiamo per ordine e scendiamo nel concreto. La pietra dello scandalo neanche a dirlo è l’inchiesta Consip, quella affidata dalla Procura di Napoli all’aggiunto Henry John Woodcock con la collega Celeste Carrano. Non proprio un’inchiesta esemplare.
A meno che sia esemplare che un capitano del Noe, Giampaolo Scafarto, finisca indagato per aver manomesso alcune intercettazioni con l’obiettivo di arrestare il padre dell’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, a prescindere dalla realtà dei fatti. Una presunta fuga di notizie, peraltro negata dagli alti ufficiali dei carabinieri chiamati successivamente in causa da Woodcock portò i vertici della Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione) a bonificare gli uffici facendo trovare le cimici messe dai magistrati. Un ritrovamento che avrebbe fatto naufragare un’inchiesta che forse non aveva molto da dire, visto che di concreto l’unica cosa che è saltata fuori è stata la consulenza data dall’imprenditore Alfredo Romeo a un funzionario per avere suggerimenti su come partecipare alle gare. Ovviamente c’è in mezzo anche l’attivismo degli imprenditori che in Paese normale cercano di difendere i loro business mentre qui da noi meritano la gogna per il controverso reato di traffico di influenze. Per questo Romeo è in carcere da mesi, mentre l’inchiesta è stata divisa con Roma, dove i pm hanno scoperto la manomissione delle intercettazioni e disposto il non utilizzo del materiale in mano a Scarfato e a Woodcock, che invece è finito puntualmente sui giornali, a partire dalla telefonata tra i Renzi padre e figlio pubblicata addirittura su un libro del Fatto Quotidiano. Basterebbe fermarsi qui per chiedersi com’è possibile che la magistratura digerisca in silenzio tutto questo.
L’aiutino a Woodcock – A fronte del sempre più evidente conflitto tra le due Procure che seguivano il caso, persino in parlamento si arrivò a chiedere un intervento del Csm. Intervento che l’ala più politicizzata della magistratura e l’Anm hanno severamente vietato, avvisando a destra e manca che solo discutere sul lavoro di Woodcock sarebbe stata lesa maestà. Tesi accolta dall’organo di autotutela dei magistrati con la motivazione che sulla vicenda c’era già troppo caos e non era opportuno aggiungerne altro. Un po’ come se nel bel mezzo di una partita di calcio scoppia una rissa tra le squadre e l’arbitro non estrare il cartelli rosso perchè di nervosismo in campo ce n’è già parecchio e non è il caso di aggiungerne altro. Passano così le settimane e il caso Consip però non si smonta. Anzi, emergono nuovi dettagli che dimostrano un indirizzo a senso unico della Procura, in una logica di pregiudizio che già da sola obbligherebbe ad affidare l’inchiesta ad altri magistrati. Parallelamente dentro quello stesso Csm che aveva fatto come Ponzio Pilato mentre pareva le indagini sembravano inchiodare Renzi, il padre, il fedelissimo Lotti e alcuni ufficiali ritenuti a lui vicini, adesso che tutto si smonta emerge l’intenzione di mettere bocca sulla vicenda. E l’occasione, proprio oggi, è la relazione in cui i magistrati attribuiscono al decreto del governo del 19 agosto scorso la finalità di minare l’autonomia dei magistrati. In quel decreto, lo ricordiamo, si prevede l’obbligo per carabinieri, poliziotti e finanzieri di comunicare ai propri superiori il contenuto delle indagini appena avviate indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale. Tutto si esaurisce in quest’ultima frase che il Csm propone al ministero della Giustizia di far sostituire, tenendo come riferimento il codice di procedura penale. Per qualcuno quel decreto fu un regalo al comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette e a quello della legione Toscana Emanuele Saltalamacchia, indagati per favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio proprio nell’inchiesta Consip. Un processo alle intenzioni che se passasse aiuterebbe Woodcock ma manderebbe alla deriva il funzionamento delle nostre Forze dell’ordine.