PUBBLICATO IL 25 OTTOBRE 2013
di Stefano Sansonetti e Monica Tagliapietra
È come riempire di benzina il motore di una macchina con le ruote sgonfie, sperando che la macchina arrivi a destinazione. Se poi alla guida si siede la politica, e non manager capaci, si capisce che nemmeno la destinazione è chiara. Benvenuti nel mondo imperfetto della sanità italiana, almeno secondo l’immagine evocata in una recente ricerca realizzata da Transparency International Italia, Rissc (Centro ricerche e studi su sicurezza e criminalità) e Ispe (Istituto per la promozione dell’etica in sanità). La benzina, naturalmente, è data dai 100 e più miliardi di euro che vanno a finanziare il Servizio sanitario nazionale. Le gomme sgonfie, invece, sono le aziende e gli ospedali che certo non fanno dell’efficienza la loro caratteristica principale. E allora è proprio questo lo scenario all’interno del quale, certo non da ora, si è sviluppato quel sistema “gelatinoso” in cui la corruzione continua a proliferare e il denaro pubblico a essere sprecato. Come è possibile che in Italia l’Asl di una determinata regione paghi un inserto tibiale 199 euro e un’altra 2.479, con una differenza del 1.145%? E come si spiega che una protesi all’anca in ceramica venga pagata in una regione 284 euro e in un’altra 2.575, con una maggiorazione dell’806%? Il nodo è proprio questo. Conta poco il fatto che il Servizio sanitario nazionale costi 100 o 110 miliardi di euro l’anno.
Un girone dantesco
I dati appena citati, messi nero su bianco un anno fa dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, dimostrano solo una cosa: questi 100-110 miliardi vengono spesi male. E quindi le risorse dei cittadini risultano ancora sistematicamente sacrificate sull’altare delle clientele, delle consorterie e della corruzione dilagante che modellano i rapporti tra aziende sanitarie, medici e aziende fornitrici. Quanti anni sono che si discute dell’applicazione dei cosiddetti “costi standard”? Circa 20. Sulla carta si tratta di una soluzione semplice semplice. Si prendono i costi sostenuti dalle regioni più virtuose nell’approvvigionamento delle varie forniture sanitarie, poi si obbligano la altre ad adeguarsi. Se la media delle regioni più virtuose ci dice che il giusto prezzo per una protesi all’anca è di 300 o 400 euro, le altre non potranno più permettersi di pagarne 2.575. Facile a dirsi, nella realtà la situazione è un po’ diversa. “Le regioni sono vischiose da un punto di vista politica e le aziende fornitrici sono quelle che sono”, ha spiegato laconicamente a La Notizia Giuseppe Vitaletti, dal 2002 al 2006 presidente dell’Alta commissione sul federalismo fiscale, organo che ha trattato in lungo e in largo la questione dei costi standard. Ma il dato è subito molto chiaro. L’applicazione dei costi standard trova così tanti ostacoli perché andrebbe a incidere proprio su quel sistema di intrecci perversi che esistono in tutto il territorio tra Asl e imprese fornitrici. Per essere più chiari: se un fornitore, magari dietro qualche bel regalo ai dirigenti della Asl di turno, ha sempre venduto la famosa protesi all’anca a 2.500 euro, è evidente che lo stesso fornitore e la medesima Asl vedranno come fumo negli occhi l’applicazione dei costi standard. La realtà, ha aggiunto Vitaletti, “è che correggere questo stato di cose è una vera impresa. Ci sono resistenze immani, difficili da immaginare”.
Il documento
Per capirne la dimensione, può essere utile vedere cosa dice la ricerca di Transparency, Rissc e Ispe. “In alcune realtà l’Asl diventa un serbatoio di lavoro, da raggiungere non sempre attraverso la meritocrazia, e di conseguenza un serbatoio di voti”. Poi c’è la criminalità organizzata, “che soprattutto in alcune aree del paese vende servizi a bassa tecnologia alle Asl”. Dal lato dell’offerta sanitaria, prosegue la ricerca, il problema più grave è “l’elevato grado di discrezionalità nelle scelte aziendali e ospedaliere, che influisce di conseguenza sull’offerta pubblica di servizi e rende difficile la standardizzazione delle prestazioni da erogare”. Per non parlare del “ruolo ingerente della politica, soprattutto regionale, nell’organizzazione dell’offerta sanitaria, nella selezione dei direttori e nell’allocazione delle risorse”. Ma l’elenco è interminabile. C’è “la scarsa trasparenza nell’uso delle risorse”, il loro spreco “che risponde principalmente a dinamiche clientelari e di inefficienza sistemica”. Infine “le scelte, ripetute nel tempo, di nominare i presidenti di regioni con deficit sanitari gravissimi quali commissari straordinari per la sanità regionale dimostra, se per caso ve ne fosse bisogno, la sostanziale assenza di qualsiasi forma di responsabilità politica per le inefficienze regionali”. Insomma, di fronte a una situazione del genere in Italia si continua a promettere l’imminente applicazione dei “salvifici” costi standard, peraltro già approvati dal governo nelle loro grandi linee. Adesso ci riprova anche l’attuale ministro della sanità, Beatrice Lorenzin. Si spera con esiti più fortunati rispetto al recente passato.
L’inferno delle spese per la sanità. Ogni regione fa come vuole
Aghi, garze, protesi. Tutto pagato a peso d’oro, ma soprattutto con differenze che toccano anche l’800% tra un ospedale e l’altro d’Italia. Assurdità dettate non solo, anzi quasi mai, dalla qualità dei prodotti, quanto invece dal caos che regna sugli appalti, da una gestione della spesa pubblica fallimentare e allegra, dalla centrale unica di acquisti mai decollata e da controlli affatto efficienti. Tutti correttivi promessi dai diversi ministri e dai vari Governi, rimasti però tra i buoni propositi e nel tutto italiano libro dei sogni. Ad andare a spulciare nei conti delle Asl del Belpaese è stata l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e quel che è emerso è stato il caos completo.
Il balletto dei prezzi
Aghi pagati tra un minimo di 9 centesimi e un massimo di 25 euro, con una differenza del 177%, suturatrici monouso per cui c’è stato chi ha speso 188 euro e chi è arrivato a spenderne 520, garze in cotone acquistate tanto a 2,89 euro quanto a 7,47, con una variazione del 158%. Ospedali che pagano 284 euro per una protesi d’anca e altri che pagano 2.575 euro, con una differenza dell’806%. Tutto per gli stessi prodotti utilizzati nello stesso Paese. E che dire degli stent coronarici: stesso dispositivo, ma c’è chi lo ha acquistato a 150 euro e chi a 669. Steli femorali pagati 1.200 euro e 2.100 euro, ovvero il doppio. Inserti tibiali fissi per cui sono stati spesi 199 euro da una Asl e più di 1.000 da un’altra, con una differenza di ben il 478%. Sembra un mercato impazzito quello dei dispositivi medici. Ma questi sono solo alcuni degli acquisti su cui si è concentrata l’attenzione dell’Authority, cercando di farsi largo tra appalti e clausole. Uno screening compiuto insieme all’Agenas, l’Agenzia nazionale sanitaria per i servizi regionali, analizzando le gare d’appalto aggiudicate tra il 2010 e il 2011. L’Autorità di vigilanza, in base a quanto previsto dalla manovra voluta dall’allora ministro Giulio Tremonti nel 2011, ha fissato anche dei prezzi medi di riferimento.
Le incongruenze
Stabilito dall’Authority il prezzo medio corretto, il dato sullo spreco diventa lampante. E il balletto sui prezzi tocca punte sempre più alte. Le differenze toccano il 500% anche su una semplice benda. Stessi prodotti pagati un prezzo e da altre Asl quattro volte di più. Le protesi vascolari rette usate per gli aneurismi, ad esempio, costano di media alle Aziende sanitarie 1130 euro, quando invece l’Autorità di vigilanza specifica che sarebbero più che sufficienti 293 euro. Stessa situazione sugli stent coronarici. Differenze che diventano infine macroscopiche quando si parla di prodotti molto più semplici e comuni, come le medicazioni in film di poliuretano, quelle per le medicazioni al ginocchio, acquistate a 7,85 euro rispetto a un prezzo ritenuto equo di non più di 1,32. Ma cosa cambierebbe se venissero seguite le indicazioni dell’Authority? Proprio sulle medicazioni per il ginocchio emerge che si potrebbero ottenere risparmi per il 500%. E lo stesso accade sulle siringhe monouso da 10 ml, pagate sette centesimi quando ne sarebbero sufficienti tre, e le garze sterili, pagate otto centesimi anziché tre. Se qualunque altro prodotto presentasse oscillazioni dei prezzi di tali percentuali, dal 50 al 100 e perfino al 200 per cento, si direbbe che il mercato è in mano agli speculatori. Le associazioni dei consumatori insorgerebbero. Interverrebbe il Garante per la sorveglianza dei prezzi. Gli imprenditori scorretti verrebbero perseguiti dalla Guardia di finanza.