di Clemente Pistilli
Tra un dibattito sulle quote rosa e un’iniziativa a tutela del gentil sesso, quando si tratta di riconoscere se è avvenuta una discriminazione tra uomo e donna la situazione sembra farsi complessa. Nonostante la Corte d’Appello di Roma avesse stabilito che una dipendente dell’istituto San Paolo Imi, poi fuso nell’attuale Intesa San Paolo, non era stata promossa al grado di funzionario soltanto perché donna, la Corte di Cassazione ora ha ribaltato la sentenza e annullato il risarcimento che era stato riconosciuto alla lavoratrice. Il motivo? L’interpretazione delle leggi in materia.
Le norme
Per garantire che venisse rispettato il principio, costituzionalmente garantito e ribadito a livello europeo, della parità tra uomo e donna, nel 1977 venne varata la legge 903. Al fine di rafforzare le tutele sulla parità di trattamento e le pari opportunità, recependo le raccomandazioni Cee, nel 1991 arrivò poi la legge 125. Norme a cui si sono aggiunte quelle analoghe del 2000, il Codice di parità del 2006 e il decreto legislativo del 2010. Tutte leggi con cui è stato stabilito che quando viene denunciato un comportamento discriminatorio è il datore di lavoro a dover dimostrare che ha agito correttamente. Stesso principio sancito a livello europeo.
Dalla teoria alla pratica
Un’impiegata del San Paolo Imi aveva ottenuto ragione dalla Corte d’Appello capitolina, che aveva ritenuto accertata la discriminazione sessuale subita dalla donna. In base alle norme sulla parità, per i giudici di secondo grado la lavoratrice non aveva altro onere se non quello di dimostrare che aveva subito un danno e che verosimilmente era stato dovuto a una differenza di trattamento tra dipendenti di sesso diverso. L’impiegata aveva inoltre provato che vi erano state due interpellanze parlamentari relative all’esiguità di promozioni tra le donne impegnate nell’Imi e che dubbi sulle progressioni di carriera nella banca erano stati posti anche, con apposito parere, dal Collegio istruttorio del Comitato nazionale di parità e pari opportunità. L’attuale Intesa San Paolo ha fatto ricorso in Cassazione, parlando di una sentenza emessa “sotto la suggestione di un’erronea e fuorviante applicazione della normativa a tutela del lavoro femminile”, e la sezione lavoro della Suprema Corte ha annullato la sentenza sul risarcimento per l’impiegata, entrando anche nel merito. Per la Cassazione, le norme italiane ed europee hanno solo “alleggerito” l’obbligo della lavoratrice di provare la discriminazione, che si deve desumere da elementi caratterizzati da “precisione, concordanza e serietà”, come ad esempio un’analisi statistica. In caso contrario nessun obbligo del datore di lavoro di provare che non ha messo in atto comportamenti discriminatori. In pratica: se la dipendente non è stata promossa soltanto perché indossa una gonna anziché i pantaloni è un aspetto su cui non si può neppure discutere.